






È stato un impatto forte quello di Bianca Balti sul palcoscenico del Festival di Sanremo: un’immagine di bellezza, femminilità, eleganza, con l’evidenza della sofferenza attraversata per la malattia oncologica e la sua cura. Una coraggiosa rappresentazione della vulnerabilità umana in un ambito, quello dello spettacolo, che generalmente privilegia perfezione e leggerezza.
La malattia, oncologica o di altra natura, ci pone di fronte alle nostre fragilità e vulnerabilità, sentimenti tra i meno accettabili socialmente. Spesso si elogiano e vengono portate a modello persone dal carattere forte, dove forte è in genere sinonimo di freddo, poco sensibile: chi è forte è vincente, chi è sensibile ed emotivo è perdente.
È forte chi non mostra i propri sentimenti e dunque non mostra le proprie fragilità.
Le malattie invece sono proprio caratterizzate dalla fragilità fisica e da sentimenti di fragilità emotiva.
Spesso chi si ammala si ritira, si isola, si sottrae agli spazi sociali, per il pudore della malattia quando non per la vergogna della propria fragilità e viene considerato un “guerriero” se solo non si rinchiude in casa ma riprende la sua quotidianità mentre si cura.
Di guerrieri e guerriere che hanno combattuto contro la malattia, ne abbiamo conosciuti tanti. Ma la cura della malattia non è una guerra contro qualcosa.
Probabilmente la malattia è la reazione dell’organismo a circostanze esterne e interne disfunzionali, in ultima analisi una forma di adattamento, che allora è più coerente comprendere che combattere.
Certo non voglio intendere che una malattia non vada curata, ma che la cura dovrebbe essere coerente con questo assunto, che non dovrebbe essere solo un percorso passivo di rimozione della parte malata di sé, percepita e diagnosticata come estranea, quasi fosse un nemico esterno da cui difendersi. Se è vero che è una forma di adattamento, allora curarsi non può significare combattere, che dunque sarebbe un conflitto contro se stessi con il rischio di reazioni opposte alla guarigione per affermare con più forza che c’è un problema.
Se la cura non è una guerra contro se stessi e dunque persa per definizione, allora dovrebbe piuttosto configurarsi come un percorso di riappropriazione del rapporto con se stessi, perso probabilmente molto tempo prima di ammalarsi o magari mai costruito davvero.
Alla diagnosi medica dovrebbe sempre affiancarsi e integrarsi una diagnosi psicologica che ricostruisca e tenga conto dei tempi precedenti alla malattia fisica: in che momento della vita della persona si è manifestata e che significato può avere il blocco che ha creato, nel proprio progetto di vita.
leggi tutto il post su Il Fatto Quotidiano