da patrizia mattioli | Feb 27, 2025 | Blog su Il Fatto Quotidiano, NEWS

È stato un impatto forte quello di Bianca Balti sul palcoscenico del Festival di Sanremo: un’immagine di bellezza, femminilità, eleganza, con l’evidenza della sofferenza attraversata per la malattia oncologica e la sua cura. Una coraggiosa rappresentazione della vulnerabilità umana in un ambito, quello dello spettacolo, che generalmente privilegia perfezione e leggerezza.
La malattia, oncologica o di altra natura, ci pone di fronte alle nostre fragilità e vulnerabilità, sentimenti tra i meno accettabili socialmente. Spesso si elogiano e vengono portate a modello persone dal carattere forte, dove forte è in genere sinonimo di freddo, poco sensibile: chi è forte è vincente, chi è sensibile ed emotivo è perdente.
È forte chi non mostra i propri sentimenti e dunque non mostra le proprie fragilità.
Le malattie invece sono proprio caratterizzate dalla fragilità fisica e da sentimenti di fragilità emotiva.
Spesso chi si ammala si ritira, si isola, si sottrae agli spazi sociali, per il pudore della malattia quando non per la vergogna della propria fragilità e viene considerato un “guerriero” se solo non si rinchiude in casa ma riprende la sua quotidianità mentre si cura.
Di guerrieri e guerriere che hanno combattuto contro la malattia, ne abbiamo conosciuti tanti. Ma la cura della malattia non è una guerra contro qualcosa.
Probabilmente la malattia è la reazione dell’organismo a circostanze esterne e interne disfunzionali, in ultima analisi una forma di adattamento, che allora è più coerente comprendere che combattere.
Certo non voglio intendere che una malattia non vada curata, ma che la cura dovrebbe essere coerente con questo assunto, che non dovrebbe essere solo un percorso passivo di rimozione della parte malata di sé, percepita e diagnosticata come estranea, quasi fosse un nemico esterno da cui difendersi. Se è vero che è una forma di adattamento, allora curarsi non può significare combattere, che dunque sarebbe un conflitto contro se stessi con il rischio di reazioni opposte alla guarigione per affermare con più forza che c’è un problema.
Se la cura non è una guerra contro se stessi e dunque persa per definizione, allora dovrebbe piuttosto configurarsi come un percorso di riappropriazione del rapporto con se stessi, perso probabilmente molto tempo prima di ammalarsi o magari mai costruito davvero.
Alla diagnosi medica dovrebbe sempre affiancarsi e integrarsi una diagnosi psicologica che ricostruisca e tenga conto dei tempi precedenti alla malattia fisica: in che momento della vita della persona si è manifestata e che significato può avere il blocco che ha creato, nel proprio progetto di vita.
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da patrizia mattioli | Gen 7, 2025 | Blog su Il Fatto Quotidiano, NEWS

Il successo e la popolarità fanno male? Sì, se avvengono improvvisamente e per questo scuotono bruscamente il proprio senso di identità personale.
Un cambiamento improvviso, anche positivo, come una vincita, un successo e una popolarità repentini, creano una discontinuità nella propria immagine di sé e minano il proprio equilibrio psicologico. La solidità e la stabilità dell’immagine che abbiamo di noi stessi (positiva o negativa) è un bisogno umano. Dobbiamo continuamente avere la sensazione di essere qualcuno e di sapere bene chi è quel qualcuno. Un senso di identità personale stabile e definito, in cui cioè si è consapevoli delle proprie caratteristiche, permette di percepirsi e valutarsi in modo costante nel tempo. Aspetto fondamentale date la mutevolezza e l’imprevedibilità delle vicende della vita.
Il mantenimento di un’identità personale stabile è dunque importante e vitale, e se diventa incerto non si è più in grado di funzionare adeguatamente fino a perdere il rapporto con la realtà.
Forse è quello che è successo allo scrittore Paolo Cognetti, che racconta di aver subito un trattamento sanitario obbligatorio (Tso) a seguito di un crollo psicologico con forti oscillazioni emotive e comportamenti maniacali. È plausibile ipotizzare che il successo della sua opera Le otto montagne gli abbia fatto bruciare le tappe e questo abbia provocato soddisfazione, ma anche forti oscillazioni interiori. La rottura sentimentale di un rapporto decennale, togliendo anche un altro pilastro identitario, ha probabilmente fatto precipitare gli eventi.
In conclusione, un senso di identità stabile è condizione essenziale per sentirsi vivi. Bruschi cambiamenti di vita: matrimonio, genitorialità, distacchi, vincite, successi, popolarità modificano profondamente l’immagine che una persona ha di sé e causano disagio e disorientamento che può durare nel tempo, fino a che i nuovi stati non vengono elaborati e la nuova condizione di vita non viene integrata in una nuova identità.
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da patrizia mattioli | Dic 15, 2024 | Blog su Il Fatto Quotidiano, Libri, NEWS, Psicologia

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La mia storia dei Piccoli Psicologi, di cui ho iniziato a parlarvi in un precedente post,prosegue con la pubblicazione di un’altra avventura. Nel viaggio attraverso la storia della psicologia, dopo aver esplorato le teorie e il lavoro di Sigmund Freud e di sua figlia Anna, torniamo indietro nel tempo per conoscere un altro personaggio centrale nella nascita della psicologia moderna: Wilhelm Wundt.
Se i Freud e la psicoanalisi hanno posto l’accento sullo studio delle dinamiche psichiche più profonde e complesse, Wilhelm Wundt è stata una figura leggendaria nella storia della psicologia, che con il suo lavoro ha favorito l’ingresso della psicologia tra le discipline scientifiche.
Nato nel 1832, in Germania, fu uno dei primi a usare metodi scientifici per studiare la mente umana, fondando il primo laboratorio di psicologia a Lipsia nel 1879. Ma prima di diventare uno dei più grandi psicologi, Wilhelm Wundt è stato un ragazzino curioso e introverso, con una mente inquieta e una passione per la scoperta.
Vi propongo un estratto delle sue avventure.
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Con i cugini però, non andava sempre male. C’erano anche volte in cui si divertiva con loro.
In una notte di stelle cadenti, i tre cugini erano particolarmente affiatati e facevano a gara a chi le vedeva per primo. Wilhelm era sempre il primo, Rufus il secondo e Gustav il terzo.
Wilhelm trovava strano questo aspetto: le stelle erano le stesse ma Rufus e Gustav sembravano… come distratti.
Senza saperlo stava cominciando a studiare quello che sarebbe diventato uno degli argomenti più interessanti per lui: lo studio dei tempi di reazione, cioè lo studio della differenze tra le persone nel modo di reagire agli stimoli.
A volte Wilhelm faceva finta che la sua camera fosse un laboratorio e che lui fosse uno scienziato.
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da patrizia mattioli | Ott 18, 2024 | Blog su Il Fatto Quotidiano, NEWS, Scuola

Della storia di Leonardo, il ragazzo quindicenne di Senigallia, e della sua decisione di togliersi la vita, sappiamo poco. Viene dato molto peso al bullismo subìto nella nuova scuola dall’inizio dell’anno scolastico, come se fosse l’unico responsabile del suo gesto estremo.
Non voglio dire che non sia importante. In adolescenza il bisogno di appartenenza insieme al riconoscimento e al rispetto da parte del gruppo dei coetanei è centrale per consolidare un’immagine di sé positiva e una buona autostima. Il venir meno di considerazione e rispetto può essere molto doloroso, ma considerare il bullismo come unico responsabile, sembra una lettura riduttiva per un fatto così importante, una relazione di causa-effetto quasi deresponsabilizzante verso tutte le istituzioni implicate nel percorso educativo di uno studente. Il suo gesto è l’atto finale di un dramma iniziato molto tempo prima.
M In un fatto così grave non possiamo pensare a un unico fattore, ma a una condizione di fragilità costruita nel tempo, nel corso della sua breve vita nei diversi contesti: a casa, a scuola, nelle relazioni interpersonali, tenendo conto delle predisposizioni personali.
Quello che sappiamo dai giornali è che qui ci sono genitori separati, uno dei due lontani, insegnanti distratti e poco empatici, compagni fragili che mal sopportano la diversità e la fragilità di un loro pari, una pistola fin troppo facile da sottrarre. E che non è stato dato il giusto peso alla volontà di Leonardo di lasciare la scuola.
Quando un bambino, un fanciullo o un adolescente manifesta l’intenzione di non andare più a scuola, non lo fa perché è pigro, svogliato o chissà cosa, ma perché ha un problema. Un problema che può essere legato a come si sente, a come sta a scuola, alla difficoltà ad allontanarsi da casa, a una difficoltà di apprendimento… Probabilmente per Leonardo erano in gioco tutti i fattori. L’impressione è che lui descritto come silenzioso e introverso, avesse difficoltà a chiedere aiuto e il senso di non avere nessuno su cui contare, che fosse in grado di ascoltare, comprendere e accogliere il suo disagio.
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da patrizia mattioli | Set 9, 2024 | Adolescenza, Blog su Il Fatto Quotidiano, NEWS

Uccide padre, madre e fratello minore a Paderno Dugnano. Perché? La risposta sta in quegli aspetti psicologici della vita: vissuti emotivi, affetti, aspetti relazionali, che vengono comunemente sottovalutati.Tutta la sfera emotiva viene spesso liquidata come uno scarto evolutivo che si ostina a manifestarsi a dispetto di ogni logica. Quando avvengono fatti eclatanticome la strage della famiglia operata da un diciassettenne, ci si interroga sui motivi. Si interrogano gli esperti, gli psicologi, psicoanalisti, psichiatri, criminologi, che devono essere pronti, con spiegazioni convincenti che facciano capire quanto sia importante accettare quella parte più istintiva. Quanto sarebbe più utile conoscerla e riconoscerla per renderla costruttiva e funzionale piuttosto che impulsiva e distruttiva.
Agli esperti viene richiesto di fornire strumenti e chiavi di lettura, per riconoscere i segnali che precedono l’esplosione omicida o suicida a seconda dei casi.
Paradossalmente viene richiesto di mettere in luce quello che continuamente e attivamente si cerca di oscurare.
C’è il bisogno di distinguere nettamente tra salute e malattia, tra equilibrio psichico e malattia mentale, per rassicurarsi che certe cose possano succedere solo ad altri. In realtà non c’è una così netta distinzione tra salute mentale e psicopatologia, ma piuttosto si dispongono lungo un continuum. E quella che chiamiamo malattia mentale è a volte il risultato di una lunga storia fatta di cecità e sordità, e che se messi in particolari condizioni tutti noi potremmo sviluppare una patologia e un agito aggressivo.
Spiegazioni che diano la coerenza di quanto è accaduto a Paderno Dugnano, sarebbero possibili solo conoscendo la storia delle persone, della famiglia, cosa abbastanza difficile da risalire con i pochi dati presenti in rete. In generale nella costruzione di una tragedia concorrono più fattori: la storia della famiglia, la storia del ragazzo, i piani di comunicazione, quanto ognuno percepisce l’altro come persona, quanto accoglie le richieste, quanto riconosce le specificità, quanto consente l’affermazione dell’individualità di un figlio adolescente. È per esempio certamente più facile gestire un figlio più piccolo che ancora non manifesta l’oppositività, piuttosto che un diciassettenne che più facilmente contesta, si oppone, protesta e ha più strumenti e forza per farlo.
In adolescenza c’è il problema del passaggio all’atto cioè la tendenza ad agire i disagi che non riescono ad essere verbalizzati.
C’è la tendenza a non riconoscere la presenza di conflitti interiori e a proiettarli sull’ambiente circostante, da qui la difficoltà a elaborare e superare i conflitti stessi e la tendenza a risolvere evitando o eliminando gli ostacoli esterni.
L’agire si manifesta nella quotidianità dell’adolescente la cui forza e attività motoria si sono sviluppate all’improvviso.
La libertà l’autonomia e l’indipendenza per la prima volta acquisite e percepite, favoriscono l’agire.
Le trasformazioni corporee mettono a dura prova il senso di identità che giovane va gradualmente consolidando e sono fonti di attivazioni interne e ancora dell’agire. La spinta alla libertà e all’autonomia porta con sé poi, la paura di rimanere soli,di non poter contare sui familiari se ci si guarda indietro. Questi aspetti possono trasformarsi ed essere percepiti come un senso di esclusione: mentre è lui o lei che si allontana dai genitori e dai familiari, sente di essere escluso e allontanato da loro. Forse è quello che è successo al giovane di Paderno Dugnano.
Quando i genitori gli chiedevano se avesse qualche preoccupazione rispondeva che andava tutto bene. Se c’è qualcosa che si può fare per scongiurare il ripetersi di queste brutte storie è imparare dall’esperienza…….
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da patrizia mattioli | Mag 9, 2024 | Blog su Il Fatto Quotidiano, Genitorialità, Maternità, NEWS
Le origini della festa della mamma risalgono all’antica Grecia. Quella di oggi è una mamma che alla possibilità biologica della maternità ha integrato la realizzazione e affermazione personale anche al di fuori della genitorialità, con non poche difficoltà. Su questo sono state già scritte molte cose.
Mi stimola di più il dibattito sulla effettiva necessità di festeggiare la mamma di fronte a donne che magari madri non lo sono diventate pur volendolo o di fronte a bambini che la mamma non ce l’hanno più, perché non c’è più, perché se n’è andata o perché è poco presente. Soprattutto questo secondo caso direi. Non voglio discutere su quanto possa essere giusto o meno la festa in sé, ma stimolare una riflessione su un problema che si pone per esempio a scuola se le maestre vogliono far preparare i lavoretti da regalare alle mamme.
La reazione è spesso quella di evitare, come atteggiamento protettivo verso i bambini mancanti, per paura di stimolare una sofferenza, sottolineare la diversità, creare un danno. In realtà proteggere i bambini dalle loro storie non sembra così funzionale, sarebbe come dire che non sono in grado di elaborare sentimenti di perdita o di abbandono, e questo sì che potrebbe essere dannoso. I bambini non possono e non devono essere protetti dalle emozioni negative, se queste sono coerenti con le loro esperienze di vita. Devono piuttosto essere aiutati ad esprimerle, a manifestare il dispiacere e la sofferenza, a farli defluire.
Guardiamoci dentro e chiediamoci se, nel tentativo di proteggere un bambino dalla sua sofferenza, stiamo davvero esprimendo una sensibilità o piuttosto stiamo proteggendo noi stessi da quella stessa sofferenza. Come anche (ci stiamo proteggendo), dalla personale incapacità di accoglierla, dalla personale incapacità di sostenere e consolare.
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