da patrizia mattioli | Gen 15, 2024 | Blog su Il Fatto Quotidiano, Emozioni
Le donne al potere dovrebbero costruire scenari nuovi
Per Lavinia Mennuni “dobbiamo far sì che le ragazze di 18-20 anni vogliano sposarsi e vogliano mettere su una famiglia”. Per Elly Schlein “l’ambizione di tante deve essere quella di diventare Rita Levi Montalcini”. Due facce della stessa medaglia. Posizioni opposte che continuano a riflettere l’eterno dilemma tra maternità e affermazione professionale. Le donne come gli uomini dovrebbero essere libere di scegliere in che proporzione costruire il proprio progetto di vita, senza che questo penalizzi l’una o l’altra area. Soprattutto dovrebbero evitare di combattere battaglie con strumenti e obiettivi che non gli appartengono, costruiti ancora oggi su modelli molto maschili.
Le donne in generale – e soprattutto quelle che arrivano a ricoprire posizioni di potere – dovrebbe portare scenari diversi, a cominciare dall’utilizzo di articoli e sostantivi adeguati al genere piuttosto che adeguarsi a quello che c’è (il segretario di partito, il presidente del consiglio…), che facciano intravedere la prospettiva di una società più femminile dove la maternità non è una penalizzazione ma una risorsa, e dove non è solo un fatto personale. Sembra piuttosto che si realizzi un’incongruenza tra quello che una donna raggiunge e la definizione che se ne dà, accettando implicitamente l’idea che maschile è meglio e che se si ricopre quella posizione di potere è perché si è un po’ più “maschili” che femminili, come a rinnegare o sopraffare quella parte femminile che sembra troppo fragile e vulnerabile per far parte di un profilo di potere.
Non è così che si cambiano le cose. Se certi atteggiamenti erano inevitabili e comprensibili qualche decennio fa, al tempo delle prime donne manager, non lo sono più oggi.
Dalle donne che vanno al potere oggi ci aspettiamo cose nuove. Prospettive che sappiano integrare femminilità e affermazione professionale. Che gettino le basi e qualcosa di più per una società più rispettosa delle regole della natura, dove la maternità, che è un’esperienza importante anche se non essenziale nella vita di una donna, sia favorita, tutelata, protetta. La genitorialità è importante nella vita di una donna come anche nella vita di un uomo. È importante che si realizzi una più equa distribuzione delle responsabilità, che consenta a entrambi i genitori di esserlo e occuparsi dei propri figli, così come di realizzarsi sul lavoro.
Come dice Ugo Morelli (saggista e psicologo italiano), non avremo un mondo migliore quando più donne arriveranno al comando se continueranno ad usare un codice maschile. Forse avremo un mondo migliore quando uomini e donne sapranno integrare codici maschili e femminili…..
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da patrizia mattioli | Set 19, 2022 | Blog su Il Fatto Quotidiano, Emozioni
40 anni di emoji per migliorare la comunicazione virtuale. Comunicare è quasi un’arte. Inviare messaggi che vengano interpretati da chi li riceve con il significato di chi li invia è un’impresa non da poco. Se il rischio di incomprensioni e fraintendimenti è insito in ogni comunicazione umana, è certamente più alto nella comunicazione testuale, dove la componente non verbale è quasi assente. Il piano non verbale con le espressioni del viso, il tono di voce, le pause e tutto il resto, trasmette infatti informazioni essenziali su come intendere il messaggio che si riceve. Per questo sono nate le forme grafiche e i simboli che utilizziamo nei messaggi online.
L’emoticon, l’antenata delle attuali faccine sorridenti, creata per caso da un docente di informatica con due caratteri speciali della tastiera :), compie 40 anni. Un lungo periodo in cui ha dimostrato la sua utilità nell’indicare il senso da dare a un contenuto, tanto da evolversi nelle sue forme più attuali: gli emoji, veri e propri pittogrammi di facce, oggetti, animali, simboli e tanto altro. Un supporto rilevante all’obiettivo di diminuire il più possibile i rischi di fraintendimenti nella messaggistica online, fatta appunto soprattutto di testo.
Mi è capitato recentemente di esprimere, in un messaggio (senza faccine), una perplessità a una collega su una sua proposta. La perplessità è stata interpretata come una contestazione personale e ha stimolato una reazione inaspettata che ci ha portato lontano dal tema oggetto del messaggio. Gli emoji non sempre raggiungono l’obiettivo ma magari avrebbero attenuano la lettura più personale.
Sappiamo che ogni essere umano, grazie a schemi operativi interni che matura a partire dalla nascita – in base allo stile di attaccamento e all’atmosfera familiare che sperimenta – ha un suo modo di interpretare le cose che gli accadono, un modo personale di ricavare dai messaggi a cui è esposto: chi è lui, come viene visto dagli altri, cosa può aspettarsi da loro.
In mancanza di informazioni precise da parte dell’interlocutore, ognuno tende automaticamente ad attribuire significati in base ai propri schemi, alle proprie aspettative e alle proprie convinzioni e prevenzioni più personali. E’ perciò molto facile incorrere nell’incomprensione, lo sperimentiamo quotidianamente, proprio nelle relazioni che consideriamo significative, quelle che ci coinvolgono di più, relazioni familiari, relazioni sentimentali, di amicizia…………
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da patrizia mattioli | Dic 8, 2016 | Emozioni, Psicologia
Cosa lega un autore a chi guarda la sua opera?
L’esperienza estetica è il momento di incontro di un autore e un fruitore. La psicologia estetica è volta all’analisi di questo incontro, alla comprensione e spiegazione degli aspetti della creazione artistica e dell’apprezzamento estetico. Cosa motiva un artista a creare? quali processi psichici sono implicati nella creazione artistica? cosa spinge una persona verso l’arte? quali meccanismi vengono attivati nella percezione artistica?
L’interesse della psicologia estetica è rivolto alle arti visive, e a tutto ciò che nasce con l’intenzione di stimolare un’esperienza estetica: la musica, la letteratura, ecc…. artisti, musicisti, poeti, costruiscono le loro opere seguendo percorsi meticolosi, a partire da un tema preparano, elaborano, concludono mentre i fruitori, cercano, osservano, analizzano, sentono.
La psicologia scientifica ha sempre studiato a fondo i prodotti dell’arte e dell’estetica, per arrivare a conoscere i meccanismi percettivi e visivi, i processi cognitivi, la fantasia ,l’immaginazione, la personalità dell’artista con la sua storia di vita, così come le vicende e le caratteristiche di chi ne fruisce.
L’artista avrebbe prodotto la stessa opera se avesse avuto una vita diversa? Il fruitore avrebbe apprezzato lo stesso dipinto o brano, o monumento, se avesse avuto esprienze diverse?
L’estetica sperimentale è stata forse la prima forma di studio all’interno della psicologia, nuova disciplina scientifica che si andava affermando.
Nel 1860 Gustav Theodor Fechner pubblica i suoi Elementi di psicofisica, è lo studio sperimentale del rapporto che intercorre tra stimoli fisici e relative esperienze psicologiche, pochi anni dopo, nel 1876 raccoglie le sue ricerche nel campo dell’arte nell’opera Avviamento all’estetica, poco prima che Wundt (1879) fondasse il primo laboratorio di psicologia sperimentale,.
Sono poste le basi metodologiche e teoriche dell’estetica sperimentale, la psicologia sperimentale applicata al prodotto artistico. Si studiano le reazioni di piacere/dispiacere di fronte allo stimolo estetico, e la preferenza per stimoli di carattere estetico.
La teoria psicoanalitica promuove qualche anno più tardi, siamo all’inizio del ‘900, nuovi e importanti sviluppi nel settore degli studi dell’arte focalizzati su un ipotizzato legame esistente tra impulsi creativi e motivazioni profonde, con l’obiettivo di comprendere gli elementi irrazionali e intuitivi insiti nelle produzioni artistiche, fino a quel momento valutate soltanto per il contenuto apparente
.Nella sua analisi delll’opera d’arte Freud si muove prevalentemente in due direzioni: una volta a comprendere l’opera e decifrarne il messaggio, l’altra volta a comprendere il rapporto dell’opera con la vita dell’artista che l’ha prodotta, con particolare attenzione al periodo dell’infanzia. E’ nella prima direzione che si collocano i suoi saggi sulla Gradiva di Jensen e sul Mosè di Michelangelo, mentre nella seconda il saggio su Leonardo, dove prova a superare la barriera tra normale e patologico.
Per Freud l’arte, come il sogno è una forma di appagamento sostitutivo:: l’artista ha interrotto il rapporto con la realtà e attraverso le sue opere artistiche cerca di ricostruire questo rapporto, grazie alla fantasia può realizzare i suoi desideri più nascosti, le opere sono elementi tangibili del suo recupero.
L’arte si colloca per Freud in una regione intermedia tra realtà frustrante e fantasia appagante.
Per Melanie. Klein, allieva di Freud, la produzione artistica è un tentativo di riparazione legato alla fantasia inconscia di aver distrutto l’oggetto buono., per Chasseguet-Smirgel, rappresentante della scuola freudiana francese, l’opera creativa ha la funzione di riparazione del soggetto stesso che crea, per Jung l’opera d’arte non è il risultato di un conflitto o di una malattia ma di una vita psichica indipendente dalla coscienza che, attraverso l’analisi, può rivelare i suoi aspetti simbolici di immagini primordiali
(Segue)
da patrizia mattioli | Ott 28, 2013 | Emozioni
Van Gogh – Alle soglie
dell’eternitàLa depressione – Una profonda tristezza
La depressione o melanconia è quell’alterazione dell’umore che si manifesta sotto forma di profonda tristezza, con riduzione dell’autostima e bisogno di autopunizione.
La psichiatria classica descrittiva, distingue tra depressione endogena e depressione reattiva per differenziare l’alterazione dell’umore che nasce da origini interne all’individuo (endogena) da quella reattiva ad avvenimenti luttuosi o tristi(reattiva).
Secondo più recenti modelli teorici di riferimento, definiti esplicativi (come per esempio l’approccio cognitivista post razionalista), questa distinzione non esiste dal momento che il vissuto soggettivo è unico anche se può essere originato sia da stimoli esterni, riconoscibili – eventi luttuosi o tristi appunto – a chi osserva, che da stimoli interni meno evidenti anche a chi è a stretto contatto con il soggetto.
L’elemento centrale della caduta depressiva dell’umore è la perdita, perdita che può essere una perdita affettiva, per esempio dovuta alla separazione più o meno definitiva da una figura significativa, oppure di altra natura: perdita del lavoro, della stabilità economica, dell’immagine consapevole di sé o di una figura significativa, perdita della sintonia nella coppia, ecc..
La depressione si manifesta attraverso una serie di segnali cognitivo-emotivo-comportamentali precisi: demotivazione, perdita di interesse verso gli obiettivi principali della vita, perdita di fiducia nel futuro, attività mentale rallentata, diminuita, inefficiente, l’attività motoria e le cure personali possono gradualmente ridursi, è presente un sentimento costante di stanchezza e stancabilità.
L’insonnia è spesso uno dei sintomi iniziali, così come l’inappetenza, la diminuzione dell’interesse sessuale, la diminuzione delle funzioni epato-biliari, la tristezza profonda con sensi di colpa accompagnati da un’autoaccusa continua e senso di indegnità personale e autodisprezzo. Perdita di iniziativa e di progettualità.
Il desiderio di morte è una delle sfaccettature del vissuto depressivo.
A volte la depressione può manifestarsi in forma di ciclotimia ovvero di alternarsi di cadute dell’umore ed euforia oppure di oscillazioni tra vissuti di disperazione e rabbia.
Fasi depressive attraversano la vita di tutti gli individui come episodi legittimi e comprensibili, il soggetto si ritira gradualmente dalla scena sociale e ripiega su se stesso, è un processo fisiologico mirato a diminuire il flusso di informazioni in entrata e il recupero delle risorse personali per migliorare le proprie condizioni, cosa che avviene quando l’individuo ha in sé gli strumenti e la consapevolezza per superare lo stato depressivo.
Se l’individuo non possiede gli strumenti o non ne ha consapevolezza, lo squilibrio depressivo prende forme più marcate.
Come tutte le altre reazioni affettive, anche la depressione ha la sua ragione di essere perchè, portando l’individuo a ripiegare su se stesso, permette il recupero dell’equilibrio rotto dalla sofferenza. Diventa disfunzionale se rimane un tratto stabile dell’umore dell’individuo e il ripegamento su se stessi non conduce ad un recupero emotivo ma ad un isolamento sempre più marcato.
In questi casi è auspicabile un aiuto esterno che. data le caratteristiche della sofferenza, è particolarmente difficile ricercare per il depresso. Quando un individuo depresso riesce ad attivarsi e chiedere una qualsiasi forma di aiuto, è già avanti nel suo processo di cambiamento.
da patrizia mattioli | Ago 6, 2013 | Emozioni
Il falso specchio
C’è colpa e senso di colpa
La colpa è l’infrazione volontaria o involontaria di una norma, il senso di colpa invece è l’emozione che accompagna la violazione di una norma. La colpa è un’azione che comporta un prezzo da pagare sia come punizione, che come risarcimento del danno eventualmente creato.
Quando le norme sono chiare ed esplicite, è relativamente facile e consapevole stabilire se si è commessa una colpa. Per esempio è reato rubare e si è generalmente d’accordo su cosa si intenda per rubare, chi ruba sa che potrà andare incontro ad una serie di conseguenze. La colpa fa perciò riferimento a un dato oggettivo riscontrabile anche da persone esterne a chi compie l’azione. Chi commette un reato può senza difficoltà riconoscere la propria colpevolezza senza che questo stimoli necessariamente in lui sentimenti di colpla, magari ritiene di aver agito per una giusta causa, diciamo che ha rubato al ricco per dare al povero e non si senta affatto in colpa per questo, oppure si sente in diritto di rubare perché ha avuto una vita sfortunata, ecc…
Il senso di colpa è la sensazione soggettiva di essere immorali e riprovevoli a causa delle proprie azioni, e non implica necessariamente la commissione di un reato.. Non è reato per esempio tradire le aspettative di un genitore o di un partner, ma può essere fonte di forti sensi di colpa per essere venuti meno ad un contratto implicito con loro, alle loro aspettative.
Il senso di colpa è un’emozione sociale perché fa riferimento al proprio giudizio, ma soprattutto a quello degli altri rispetto all’idea di danno o di norme trasgredite.
Rientra tra le cosiddette emozioni secondarie, cioè non innate contrariamente alla rabbia, alla tristezza, alla gioia, alla paura, alla sorpresa, al disgusto.
Magritte
Le emozioni secondarie sono quelle indotte socialmente dal contesto in cui l’individuo vive, e da cui è influenzato e pressato alla conformità e hanno l’importante funzione di stabilizzatori dell’unità comunitaria .Il senso di colpa, segnalando il tradimento di una norma o di un valore sociale spinge a recuperare, a rimediare al danno recato e riaderire alla norma infranta.
Come tutte le emozioni, è uno stato assolutamente soggettivo e può risultare completamente incomprensibile dall’esterno se fa riferimento a norme implicite personali e familiari.
La sua intensità si manifesta lungo un continuum che va dal senso di colpa lieve, tollerabile,che spinge verso l’adattamento alle regole familiari, sociali e culturali, all’intensità distruttiva che vuole punizione e dolore per gli errori commessi fino alla psicopatologia. La colpa ha un ruolo educativo nel processo dello sviluppo morale del bambino per il carattere punitivo associato alle trasgressioni. Aiuta ad apprendere i concetti di moralità, di libertà, di giustizia, di rispetto, di dignità che sono fondamentali per l’integrazione in una comunità.
Esperienze traumatiche o carenze affettive danno origine a patologie della colpa che impediscono alla persona di interagire adeguatamente con gli altri. La flessibilità o rigidità delle norme a cui si è sottoposti e la possibilità o impossibilità di recuperare il danno arrecato, saranno indicatori della severità del senso di colpa. Norme rigide, e scarse o nulle possibilità di recupero daranno luogo a sensi di colpa prepotentii e intensi con una grande paura di essere puniti e forti sentimenti di indegnità.
Il senso di colpa può essere utilizzato in una funzione manipolatoria per influenzare il comportamento degli altri: se suscitato in un’altra persona può spingerla verso comportamenti che consentono a chi lo stimola, di ottenerne vantaggi.
Si può attenuare il senso di colpa? Forse, sì se consideria nei suoi aspetti costruttivi: sentirsi in colpa per la sofferenza di qualcuno, significa attribuirsene la responsabilità, ma anche mettersi al centro del mondo di quella persona, in qualche modo riconoscersi una centralità. Ridimensionare la centralità può diminuire l’intensità del senso di colpa (a volte ci si sente in colpa anche solo in seguito ad uno sguardo dell’altro che può essere riferito a vicende estranee).
Il senso di colpa lo conosciamo tutti, ma per alcuni scandisce la quotidianità e molte scelte sono fatte per evitare di provarne, senza valutare se (quelle scelte), sono coerenti con i propri obiettivi personali.
Qualsiasi comportamento o scelta fatta secondo criteri personali, che cioè non aderiscono alle aspettative delle persone significative, può generare e quasi sempre genera sensi di colpa. Questo non ha necessariamente un’accezione negativa, anzi può essere segnale di una maggiore individuazione e maturità, e il senso di colpa essere il piccolo prezzo da pagare per l’autonomia personale
Abbiamo detto che il senso di colpa implica valutazioni e giudizi rispetto all’inadeguatezza, all’indegnità, all’essere o meno all’altezza della situazione. La responsabilità è invece legata al semplice fatto di agire, di avere generato una conseguenza con la propria azione.. Riconoscersi una responsabilità è ben diverso dall’attribuirsi una colpa.
da patrizia mattioli | Nov 8, 2012 | Emozioni
Che cos’è la vergogna?
Il maestro di scuola – Renè Magritte
La vergogna è un’emozione dolorosa che provoca uno stato di sofferenza profonda nell’individuo che la prova. E’ un’emozione universale, legata soprattutto ai rapporti con gli altri e con la società ed è quasi impossibile da evitare.
La vergogna nasce dalla paura di perdere la faccia (di fare brutte figure) o dal dispiacere per averla già persa. Quando ci vergogniamo infatti temiamo di non riuscire o siamo dispiaciuti per non essere riusciti a dare agli altri e a noi stessi una buona immagine di noi.
Ogni volta che ci capita di non riuscire a mantenere l’immagine sociale e l’autostima ad un livello adeguato, noi proviamo vergogna. Si ritiene che sia proprio questo sentimento ad avvertirci che è stata o è possibile che venga compromessa la nostra immagine sociale o la nostra autostima . E’ per non doverci vergognare che spesso decidiamo di fare o non fare una certa cosa.
Ci sono situazioni che provocano vergogna probabilmente in tutti gli esseri umani, come inciampare per strada, avere il vestito sporco, o avere un grave difetto fisico. A parte queste, la vergogna non è provocata da qualsiasi tipo di valutazione negativa. Ognuno di noi ha delle aree personali in cui è più vulnerabile alla vergogna. Una persona può vergognarsi per aver perso una gara sportiva e un’altra no. Uno studente può vergognarsi di aver fatto male un compito in classe e un altro no. Ciò di cui ci si vergogna dipende dall’immagine che si vuole mostrare agli altri e a se stessi. Per questo proveremo vergogna per aver perso la gara sportiva soltanto se ci sembra importante essere giudicati bravi atleti. Inoltre di certe mancanze ci si vergogna solo con certe persone e di altri con altre; non ci si vergogna di tutto con tutti.
Ma la vergogna e le sue manifestazioni, hanno importanti funzioni a livello sociale. Chi si vergogna mostra di condividere certe regole anche se le ha momentaneamente infrante e questo ha la funzione di riaffermare le norme e i valori del gruppo. Un ragazzo per esempio, non si vergogna con gli amici di non portare la cravatta, perché questo non rientra nelle norme che regolano il suo gruppo, quindi il “portare la cravatta” non sarà rafforzato da questo, mentre invece si vergogna di non portare l’orecchino se tutti gli altri lo portano. Il vergognarsi dimostra che egli riconosce questa regola la considera importante e si rende conto di non averla rispettata
Una volta entrati nello stato d’animo della vergogna proviamo un forte desiderio di scomparire, di nasconderci, di fuggire. A questa sensazione interiore corrispondono sul piano espressivo soprattutto due reazioni: il rossore e la postura a testa bassa. Sono comportamenti involontari che hanno l’effetto immediato di ridurre al minimo ogni forma di contatto e di interazione con gli altri. Sono segnali di sottomissione, soggezione, il cui scopo principale è probabilmente quello di informare gli altri che ci si vergogna e chiedere comprensione (di non essere puniti o emarginati troppo). Se ci capita di infrangere il codice stradale (per esempio per un sorpasso in curva) e veniamo colti sul fatto dalla polizia, l’atteggiamento e le sanzioni nei nostri confronti saranno probabilmente diverse se ci mostreremo mortificati per la violazione fatta e ne riconosceremo la gravità, o se cercheremo di negarla o sminuirla.
Certe volte, la sofferenza che si prova quando viene avvertita una perdita nei livelli di stima e autostima non è data soltanto dalla vergogna per il fatto contingente, ma anche dalla vergogna di vergognarsi il che aumenta notevolmente il dolore del vissuto emotivo: in questi casi chi si vergogna cerca di fare il possibile perché la sua emozione non venga percepita dagli altri, perché c’è anche il rischio di diventare oggetto di derisione più o meno manifesta e più o meno bonaria e quindi di provare ulteriore vergogna. Perché?
E’ opinione comune che la vergogna, frequente nell’età evolutiva soprattutto durante l’adolescenza, sia disdicevole nell’adulto. Questo perché è un’emozione considerata come sintomo di insicurezza e paura, di eccessiva dipendenza dal giudizio altrui e di scarse competenze sociali. Il mostrare vergogna inoltre, fa pensare a una certa incapacità di controllo sulle proprie emozioni, è perciò considerata in generale un segnale di immaturità.
Ci vergogniamo di vergognarci allora perché il mostrare vergogna attira l’attenzione degli altri su di noi e sul nostro difetto o sulla nostra gaffe e ne aggrava magari le conseguenze, perché preferiremmo preoccuparci meno del giudizio degli altri, e perché sappiamo che il vergognarsi è considerato segnale di insicurezza e immaturità.
Per gli stessi motivi ci capita di provare vergogna per gli altri e se percepiamo che la persona con cui stiamo parlando sta provando vergogna, fingiamo di non essercene accorti: vergognarsi è un’esperienza penosa sia per chi la prova sia per chi ne è testimone.
Al di la di questo la vergogna resta un’emozione umana, sociale che anche nell’eta adulta e tra le persone adeguatamente sensibili al giudizio altrui, spessonon pu; essere evitata.