Smartphone e videogames: l’ossessione per il gioco in rete – III parte –

Smartphone e videogames: l’ossessione per il gioco in rete – III parte –

(segue)

Nella vita quotidiana è pratica comune, a prescindere dal sesso e dall’età, immaginare di essere qualcun altro: i bambini nei loro giochi, gli attori su un palco o davanti all’obiettivo di una telecamera. Chi ha un po’ di immaginazione mette in pratica quello che rappresenta un gioco identitario.

Le realtà virtuali e in particolare i videogiochi hanno aperto una nuova affascinante frontiera per la conoscenza, la sperimentazione e il gioco di se stessi: tale opportunità offerta dalla tecnologia videoludica segue di pari passo l’evoluzione strettamente tecnica e grafica dei prodotti e dei dispositivi, nel senso che i videogiochi, dai primi prodotti costituiti da simboli e luci, hanno presto cominciato ad acquisire importanti connotazioni narrative. Si sono trasformati in storie, fatte di personaggi, ambienti, incontri, emozioni e colpi di scena.

Chi non conosce gli attuali videogiochi, potrebbe pensare che questi siano fonte di isolamento sociale, una stimolazione sterile, un artefatto interattivo fine a se stesso, nel quale un giocatore può chiudersi per ore senza concludere nulla di concreto, ma se questo valeva negli anni ’90, quando il videogiocatore se ne stava da solo davanti al computer col suo gioco single player, oggi è una visione delle cose totalmente inadeguata. Oggi i videogiochi sono più cooperativi. Oltre ai videogame che vengono utilizzati da tutta la famiglia (come la Wii) ci sono i videogiochi online, i MMORPG (Massive(ly) Multiplayer Online Role-Playing Games = giochi di ruolo in rete multigiocatore di massa), dove un gran numero di giocatori può fare esperienza del medesimo mondo fantastico e relazionarsi con gli altri mediante il proprio avatar. Tali giochi possono essere usati anche per fini sociali. Una sperimentazione del 2013 fatta in Italia ha per esempio, utilizzato un videogioco MMORPG per potenziare i rapporti sociali all’interno di una classe e attraverso il gioco monitorato nel contesto scolastico, i ragazzi hanno potuto fare esperienza di ruoli e responsabilità ben precisi, con effetti positivi anche nelle relazioni reali (S.Triberti, L.Argenton, 2013).

“……mentre gioco, la presenza degli altri mi appare nei termini della comunità (nei confronti della quale sviluppo il senso di appartenenza), della partecipazione (che mi muove ad attuale comportamenti di cooperazione/competizione) e della ‘audience’ (le mie azioni vengono riconosciute e/o giudicate dagli altri)………..nessuno mi impedisce di giocare in solitudine e evitare il contatto con gli altri……

Tuttavia, man mano che il gioco prosegue e il personaggio sale di livello (diventando più forte e importante, ….) è pressoché impossibile giocare senza collaborare con gli altri. Infatti numerose avventure…….sono costruite in modo che soltanto gruppi di personaggi, dotati di diverse caratteristiche e capacità, possono svolgerlo per intero con successo.”

Per concludere, le preoccupazioni dei genitori sono legittime, ma quello che hanno di fronte, non è una forza oscura contro cui si devono armare, ma un modo di essere del ragazzo che utilizza il gioco per esprimersi. E dunque il gioco non è il problema in sé, ma solo una sua rappresentazione, un segnale da cogliere per orientare l’attenzione ed eventualmente intervenire e saranno più efficaci tutti gli interventi mirati a ricostruire e capire piuttosto che limitare e vietare.

I genitori di Lorenzo dovranno sospendere l’atteggiamento di giudizio e rimprovero per assumere un atteggiamento più esplorativo del mondo interno di Lorenzo. I genitori di Manfredi dovranno accettare di vivere qualche preoccupazione, per consentire a Manfredi una maggiore autonomia nel mondo reale. I genitori di Paolo dovranno sforzarsi di ricostruire un ambiente familiare più accogliente, capace di sostenere le insicurezze di un ragazzo in crescita.

tratto da: Attaccamenti a Scuola di Mattioli, Di Marzo, Febi, Martirani – edito da Alpes Italia – Roma – 2017

Casi di stalking in adolescenza

Casi di stalking in adolescenza




Quando le stalker sono le amiche adolescenti

Qualche tempo fa mi è capitata a scuola una situazione inquadrabile come fenomeno di stalking. In un primo liceo, una ragazza, che chiamerò Anita, in maniera invadente aveva proposto la sua amicizia ad una compagna, che chiamerò Gianna, che non l’aveva apprezzata anzi, l’aveva percepita come una minaccia, si era spaventata e aveva cominciato ad evitare Anita. Questa aveva interpretato l’allontanamento di Gianna, come se lei non avesse capito e insisteva con la sua proposta, un po’ di persona, un po’ tramite sms. Gianna si spaventava sempre di più e si teneva ancora di più alla larga. Ancora Anita riteneva di non aver mandato un messaggio chiaro e che Gianna non avesse capito e proseguiva con i suoi messaggi in un crescendo che la mostrava sempre più aggressiva, con l’altra sempre più spaventata che cominciava ad assentarsi da scuola.

La storia viene fuori quando gli insegnanti si rendono conto del disagio di Gianna e finalmente se ne può parlare apertamente. Attraverso una serie di interventi in cui vengo chiamata in causa, le due ragazze arrivano ad un confronto chiaro: quella che per Gianna è stata una persecuzione, per Anita era un tentativo di stimolare in Gianna una risposta definita, visto che si manteneva sempre vaga rispetto alle sue proposte di amicizia e avvicinamento.

Per Gianna si trattava di comprendere e superare la paura delle reazioni di Anita, per Anita si trattava di interpretare i segnali vaghi della compagna come risposte negative e accettare l’eventualità di non essere corrisposta nell’amicizia, anche a causa dei suoi modi molesti.

L’incapacità di Anita di cogliere il punto di vista della compagna e elaborare il messaggio di rifiuto ricevuto, e l’incapacità di Gianna di difendersi e affermare le proprie esigenze sono due facce della stessa medaglia.
Come ho già detto in altre occasioni, in psicologia non si tratta di stabilire chi ha ragione e chi ha torto, ma di fare un’analisi della reciprocità che si costruisce in un’interazione, in questo caso tra molestatore e molestato, analisi che, nell’attribuire un ruolo alla persona molestata, le consente di recuperare almeno in parte una possibilità di controllo della situazione.

Facebook, per difendere i nostri figli non servono limiti d’età ma educazione digitale

Facebook, per difendere i nostri figli non servono limiti d’età ma educazione digitale

Sembra anacronistico togliere qualcosa dopo averlo concesso e risolvere il problema della privacy e della tutela dei minoriinnalzando i limiti minimi di età per l’iscrizione. Ma davvero è questo il problema?

Secondo l’articolo 8 dei provvedimenti limitativi che riguarderanno i ragazzi di età compresa tra i 13 e i 15 anni dei paesi dell’Unione europea, gli utenti di questa età diventeranno automaticamente frequentatori abusivi dei social dall’entrata in vigore della nuova normativa nelle prossime settimane. A meno che non ottengano il consenso dei genitori i giovani utenti dovranno accontentarsi di una versione meno personalizzata di Facebook e di condividere molti meno dati personali.

Per certi aspetti non ci sarebbe niente di strano nel potersi muovere liberamente nel web solo con il benestare dei genitori, così come accade per la libertà di movimento nel mondo reale. Purché non si perda di vista quello che è il problema principale, che non è il permesso di entrare o meno e muoversi più o meno liberamente (nei social, come anche nel mondo reale) ma è soprattutto farlo dopo aver acquisito gli strumenti adatti e sapere come muoversi, dove avventurarsi, quali sono i rischi e i problemi che il giovane potrebbe trovarsi ad affrontare, quali cose si possono fare e quali no e così via.

 

Prima che di limiti è importante perciò parlare di educazione digitale e che l’educazione digitale rientri all’interno del progetto educativo del bambino prima e del ragazzo poi, che l’apprendimento del linguaggio digitale inizi in famiglia e prosegua poi a scuola, che gli insegnamenti siano propedeutici e che ci sia integrazione tra le due istituzioni nel percorso di l’alfabetizzazione digitale.

Come prenderanno i ragazzi le nuove limitazioni? Finora hanno sempre trovato modi ingegnosi per beffarsi dei limiti imposti da Facebook e da altri social. Basti pensare che l’attuale limite minimo di l’età per l’iscrizione è di 13 anni, ma già a 10 anni molti di loro sono navigatori più che esperti dei network, con dati e nomi falsi, profilo magari condiviso con altri amici, ecc..

Ritardare l’età di ingresso senza prevedere percorsi di educazione e accompagnamento non fa che spostare in avanti il problema. A 15 anni i ragazzi saranno forse un po’ meno istintivi (?), ma risulteranno indietro rispetto ad altri più intraprendenti e senza strumenti adatti saranno più soggetti a esposizioni incontrollate e inadeguate che i sistemi non mancheranno di sfruttare.

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Coco-Il film, nella storia di Miguel una lezione per adolescenti e genitori

Coco-Il film, nella storia di Miguel una lezione per adolescenti e genitori

Ribellione adolescenziale e dinamiche familiari

L’ultimo film della Disney-Pixar, Coco, diretto da Lee Unkrich, racconta la storia di Miguel, un ragazzino di dodici anni con una passione incontenibile per la musica, che deve vivere segretamente perché (la musica) è assolutamente vietata dalla famiglia, da molto tempo.

Il film Coco, è un continuo alternarsi di allegria e tristezza, tra mondo dei vivi e mondo dei morti, di spinta verso l’esterno e l’esplorazione di se e del mondo di Miguel e di chiusura al mondo con il ritiro in se di un’anziana signora ripiegata in se stessa, nel suo cuore di bambina, nei ricordi di suo padre.

Il film affronta molte tematiche, io vorrei soffermarmi su una, sul bisogno di condividere le regole che si ritiene i figli debbano rispettare e sui rischi che i veti rigidi verso i tentativi di affrancazione del bambino prima, del fanciullo e dell’adolescente poi, possono comportare.
Miguel è tutto sommato un ragazzino equilibrato, che è riuscito fino a quel momento a combinare il suo talento per la musica, con i tabù familiari che a causa di traumi pregressi, vogliono la musica bandita da casa in tutte le sue forme. Il ragazzino costruisce di nascosto la sua identità musicale, coltivando la sua passione senza suscitare la sensibilità familiare, particolarmente quella della nonna, la matriarca della famiglia, il cui pensiero non viene messo in discussione da nessuno.

Andrebbe tutto liscio se non fosse che l’istintiva esigenza di esprimersi e farsi conoscere per quello che è, tipica del momento evolutivo, di affermare, consolidare e condividere la sua musica, spingono Miguel a fare cose maldestre, che lo tradiscono. La nonna scopre la sua passione, la sua chitarra e la sua idea di cantare alla festa dei morti e ribadisce con maggiore forza, distruggendo lo strumento, la regola familiare: niente musica.
Miguel coerentemente con l’istinto adolescenziale, si ribella al divieto e sceglie strade alternative e tortuose, meno dirette, arrivando a rubare ai morti (quindi a infrangere anche ciò che di più sacro ci può essere per la famiglia e la cultura a cui appartiene), per affermare quello che vuole.

Nel suo percorso sarà posto di fronte a molti ostacoli, a situazioni difficili, a volte pericolose, a idealizzazioni e delusioni, che dovrà affrontare per lo più da solo.

La storia rappresenta in forma fiabesca, quello che avviene a partire dalla preadolescenza, quanto l’istinto all’affermazione sia forte, a scapito anche della propria incolumità, e quanto possa essere difficile avventurarsi nel percorso verso l’autonomia, se viene affrontato con l’impressione di non poter contare sull’approvazione delle figure di riferimento, la famiglia, quando questa non riconosce e non accetta la diversità (rispetto alle proprie aspettative) del figlio. Questo come genitori e come adulti lo dobbiamo sempre tenere presente: per un ragazzo l’istinto di affermazione può essere più forte anche dell’istinto di conservazione.

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L’autonomia dei figli sì, ma solo part-time

L’autonomia dei figli sì, ma solo part-time

[…] E’ giusto sperimentare l’autonomia dei ragazzi ma lo si può fare anche di pomeriggio, non necessariamente nel percorso casa-scuola-casa“, così aveva detto inizialmente la ministra Valeria Fedeli in un’intervista sulla legittimità delle richieste di alcuni presidi ai genitori (di andare a prendere i figli a scuola, dopo che una sentenza della Cassazione ha condannato il preside e il docente dell’ultima ora per la morte di uno studente finito sotto uno scuolabus quindici anni fa).

Le richieste dei presidi hanno suscitato polemiche e contrasti da parte delle famiglie che, in un momento in cui potevano allentare l’impegno degli accompagnamenti (si parla di studenti della scuola media) si trovavano retrocesse agli adempimenti e alle dinamiche di una fase evolutiva precedente e i figli a rinunciare ai traguardi raggiunti. Uno scenario paradossale in cui mentre si lavora con i ragazzi per la costruzione di un punto di vista individuale e critico, contemporaneamente si richiede loro di rimanere in una condizione di immaturità.
Nella progressiva conquista dell’autonomia, la libertà nel rientro a casa rappresenta un elemento essenziale.

La scuola media è un periodo scolastico che comprende anche un passaggio evolutivo dal momento che corre parallela alla preadolescenza, quella fase di vita situata fra infanzia e adolescenza, densa di cambiamenti fisiologici e psicologici, sovrapponibile agli anni compresi fra la quinta elementare e la terza media. Spesso definita come età negata o sconosciuta, per la scarsa considerazione che di solito le è conferita. Si differenzia dall’adolescenza vera e propria, perché i cambiamenti fisici cominciano appena ad accennarsi. Sul piano emotivo è un’ertà di sospensione, caratterizzata dal distacco dal mondo idealizzato e fiabesco dell’infanzia. Tutto ciò che piaceva prima deve essere rifiutato a cominciare dal linguaggio famigliare che deve lasciare il posto al nuovo linguaggio generazionale elaborato insieme ai coetanei.
È a partire dall’inizio della scuola media che molti cominciano a compiere da soli il tragitto casa-scuola e a trascorrere molto più tempo lontano dal controllo dei genitori. L’esigenza di autonomia è pressante e solo adttraverso l’opposizione i ragazzi sentono di esistere come individui separati, in quanto capaci di affermare una volontà diversa da quella dei genitori. Sfuggire al loro controllo e a quello degli altri adulti di riferimento è condizione necessaria per esplorazioni autonome di luoghi e relazioni. Le amicizie rappresentano l’oggetto e il veicolo di questo percorso. I coetanei da compagni di giochi diventano confidenti, complici, elementi di confronto con la realtà. Per il preadolescente prima e per l’adolescente poi, il gruppo rappresenta tutto. Nel gruppo si sente riconosciuto, capito, sperimenta un senso di appartenenza. Verso i 10-11 anni inizia un processo di costruzione (o meglio di integrazione) di un’identità sociale e di un senso di appartenenza al di fuori della famiglia, riconoscibile a partire dall’acquisizione di nuovi modi di vestire o di atteggiarsi, condivisi dal gruppo. Per molti il gruppo è costituito soprattutto dai compagni di classe: il ragazzo trascorre a scuola buona parte della sua giornata e i rapporti più importanti li costruisce lì. La scuola in generale rappresenta un “serbatoio di amicizie” che si alimentano nel tragitto dell’andata, ma soprattutto del ritorno: trattenersi qualche minuto all’uscita, fare un pezzo di strada insieme è il minimo sindacale per costruire e mantenere relazioni sociali, in una fase evolutiva in cui la stima e l’autostima si misurano sul numero di relazioni raggiunte.

La vicenda, nata dalla necessità dei presidi di rispettare la sentenza della Cassazione, sembrava dunque non tenere conto di quelli che sono i bisogni evolutivi preadolescenziali e sarebbe andata ad appesantire il già difficile rapporto tra scuola e famiglia: uno spazio emotivo in cui le possibilità di incomprensioni sono sempre in agguato

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