da patrizia mattioli | Ott 31, 2017 | Blog su Il Fatto Quotidiano
Quali sono le cause principali della mancanza di sonno?
Miriam ha 18 anni, spesso la sera non riesce a prendere sonno, soprattutto quando si sente sola. Se dorme con un’amica o si mette a letto e c’è ancora abbastanza movimento in casa ci riesce meglio. Altrimenti si agita. Se si è attardata davanti alla televisione o su una chat e i suoi già dormono, sente il rumore del silenzio e le fa paura. Ha paura del buio, degli spiriti che si immagina lo abitino. Spiriti che la fissano, non lo regge. Troppe puntate di Ghost Whisperer.
Miriam non è l’unica adolescente ad avere queste difficoltà, problemi con il sonno sono abbastanza comuni in questo periodo della vita. I suoi amici fanno a gara a chi resiste di più e si aiutano con i social, difficile staccarsene fino a notte inoltrata senza correre il rischio di perdersi qualcosa. E poi c’è la musica, le sigarette, e altre cose poco salutari. Tutti elementi che, secondo molte ricerche, interferiscono con la produzione di melatonina e con il sonno.
Da bambini, per addormentarsi si deve poter contare sulla tranquillità della presenza e della protezione delle figure di riferimento per poter accettare di lasciarsi andare alla regressione onirica senza sentirsi minacciati.
Da adolescenti si deve poter contare sulla solidità delle figure di riferimento, sulla loro resistenza agli attacchi, sulla loro presenza nonostante tutto. A volte ricompaiono condotte che sono state caratteristiche dell’infanzia: una luce accesa o una porta aperta tornano ad essere rassicuranti. La sfida notturna nasconde dunque la paura di lasciarsi andare, di ritrovarsi in sogni angoscianti, di avere incubi.
La paura del buio, o degli spiriti, è la paura di ritrovarsi soli con se stessi, con le proprie emozioni, quelle che si conoscono meno, con le proprie fragilità, è la paura di perdere il controllo sul mondo esterno ma soprattutto sul proprio mondo interno.
Può sembrare strano, ma non esistono emozioni positive o negative, piuttosto emozioni integrate o non integrate al proprio senso di sé. Conoscere le proprie emozioni significa conoscere se stessi: meno ci si conosce, più è facile che le emozioni si presentino come qualcosa di estraneo, che si manifestino in modo bizzarro.
L’emergenza emotiva, anche quella che si manifesta come pericolo esterno, è spesso un tentativo di mantenere un senso di continuità nell’identità personale anche di fronte al cambiamento. Miriam è molto giovane e la conoscenza (e la consapevolezza) che ha di sé è “ancora all’inizio”.
I pericoli che le sembrano fuori sono dentro, sono le sue emozioni, quelle che non riconosce, quelle con le quali non ha ancora familiarità, che si manifestano come qualcosa che non le appartiene, un pericolo a cui sembra non saper far fronte. Lei è una ragazza come tante, un’adolescente che come altre comincia a cercare la sua strada nella vita: sta valutando se proseguire gli studi o scegliere altre strade, non sente una passione particolare, non per il momento almeno, forse si prenderà del tempo, un anno sabbatico o qualcosa del genere.
leggi tutto il post su Il Fatto Quotidiano
da patrizia mattioli | Ott 9, 2017 | Storia della psicologia
(segue)
Per gli adolescenti la casa dei genitori rimane sempre un importante punto di riferimento, e il sistema dell’attaccamento tornerà a riattivarsi in momenti di minaccia, malattia o stanchezza. L’adolescente deve liberarsi dagli attaccamenti genitoriali, entrare nella fase transizionale di attaccamento a un gruppo di coetanei, per arrivare alla costruzione di un legame di coppia nella vita adulta.
Per Bowlby il matrimonio, o il suo equivalente, è la manifestazione adulta dell’attaccamento, nel senso che questa relazione fornisce una base sicura al lavoro e all’esplorazione, e una protezione in caso di bisogno.
L’influenza inconsapevole del sistema di attaccamento attraverso i modelli interni costruiti con l’esperienza, ha una parte importante nella scelta del coniuge e dei tipi di relazione nel matrimonio.
Questa è in sintesi la teoria dell’attaccamento che Bowlby spiega in tre volumi (Attaccamento e perdita, 1969, 1973, 1980), pubblicati nell’arco di dodici anni.
Le idee di Bowlby non raccolgono inizialmente molti consensi tra i colleghi psicoanalisti che lo considerano poco più che un comportamentista: il considerare soltanto ciò che poteva essere osservato e misurato, in nome della scientificità, avrebbe penalizzato gli aspetti importanti della psicoanalisi, inoltre dare importanza all’ambiente (importanza peraltro convalidata poi dalle rivelazioni sulla quantità di violenze fisiche, sessuali e psicologiche che subiscono i bambini, spesso in famiglia), significava non considerare il mondo interno della fantasia che era alla base della teoria psicoanalitica.
Dato lo scarso riconoscimento Bowlby si allontanò dalla Società psicoanalitica, continuando a rimanerne membro, e continuò a seguire i propri interessi. La teoria dell’attaccamento venne a costituirsi come una disciplina a sé.
Secondo alcuni questo rappresentò una perdita sia per lui che per la psicoanalisi. A Bowlby viene contestato di avere considerato poco nel suo lavoro l’importanza della fantasia e del suo rapporto con la realtà esterna. La psicoanalisi d’altro canto, rifiutando l’impostazione scientifica che proponeva Bowlby, ha ritardato il proprio sviluppo sia sul piano teorico che sul piano clinico (Holmes, 1994).
La teoria dell’attaccamento, è stata accolta inizialmente soprattutto dalla psicoterapia cognitivista (in particolar modo quella italiana: Guidano-Liotti 1983) che l’ha integrata con la psicologia dello sviluppo cognitivo di Piaget e con la ricerca sperimentale in psicologia cognitiva per descrivere la costruzione dell’identità personale.
Il lavoro di Bowlby, ha comunque dato l’avvio ad una serie di ricerche empiriche sullo sviluppo del neonato e del bambino, che si sono rivelate estremamente fruttuose.
La teoria dell’attaccamento è considerata attualmente una delle più importanti innovazioni nel campo della psicologia generale, della psicoterapia e della psichiatria e grazie alle sue basi scientifiche ha finito col raccogliere l’interesse di settori della psicologia che avevano sempre lasciato in secondo piano lo studio delle relazioni significative nello sviluppo dell’individuo. Di fatto rappresenta oggi un collegamento tra scuole di pensiero, la psicoanalisi e il cognitivismo, che trovavano troppo distanti i propri presupposti teorici per comunicare tra loro.
(Fine)
da patrizia mattioli | Giu 13, 2017 | Blog OPL
(segue)
Una volta vicini
Anche un volta che sia stato superato il problema del primo contatto molti ragazzi e molte ragazze si sentono insicuri quando si trovano in compagnia di un coetaneo dell’altro sesso. Pensano di non sapere cosa dire, hanno paura di annoiare, si chiedono se il/la partner lo/la troverà attraente, cosa si aspetta e così via. Così molte delle energie vengono impegnate nel non far vedere questa insicurezza per paura di essere giudicati male, magari presi in giro o derisi. Se uno dei due risponde in maniera indefinita all’approccio non si sa come andare avanti.
Sono incertezze che tendono a diminuire man a mano che si acquisisce maggiore esperienza. Alle prime armi si tende a lasciar perdere interpretando l’incertezza dell’altro come un rifiuto, andando avanti invece si può capire che un’incertezza può significare anche altre cose: che l’altrol’altra non è pronto/a per una storia, oppure che non si aspettava l’approccio in quel momento, che ha bisogno di più tempo, ecc…..
L’appoggio del gruppo di amici è importante, ci si stimola a vicenda, ci si può aiutare per organizzare incontri con la persona che interessa, si può parlare delle proprie esperienze così che ognuno può imparare qualcosa anche dall’esperienza dell’altro e soprattutto ci si può appoggiare così che ad un’esperienza andata male non si dia troppa importanza.
Fino a dove spingersi?
Quando due ragazzi poi cominciano a flirtare si chiedono fino a che punto vogliono spingersi con il partner.
Sia il ragazzo che la ragazza tendono a fare le loro esplorazioni sessuali con partner più grandi, nelle ragazze più facilmente con un partner con cui hanno già un rapporto sentimentale.
La scelta del partner
Nel periodo adolescenziale la scelta viene fatta soprattutto in base all’aspetto esteriore del partner, che non significa necessariamente o soltanto aspetto fisico: tutti o almeno molti sono attratti dal ragazzo leader o dalla ragazza più carina della classe.
Essendo un periodo di grandi insicurezze per tanti motivi, non solo perché caratterizzato dalla sperimentazione su tanti campi sociali, la convalida esterna attraverso le doti pubblicamente riconosciute dell’altro può aiutare a compensare le proprie insicurezze. Il modo in cui si è visti dagli altri (per esempio come una bella coppia) fornisce un potente senso di conferma sul piano personale.
Nei rapporti confermanti, è importante che l’altro non sia troppo disponibile. Più è difficile da raggiungere, più risulta confermante. Rapporti di questo tipo tendono a durare poco e ad essere sostituiti, da rapporti con persone che meglio si adattano alle proprie caratteristiche personali.
Quando si sceglie un ragazzo o una ragazza in base alle conferme che il rapporto può fornire agli occhi degli altri (cioè se il rapporto permette di sentirsi considerati perché si sta con una persona che viene considerata), ci si sentirà sempre un pò inadeguati. Se si scelgono continuamente ragazzi o ragazze che fanno apparire straordinari prima o poi ci si sentirà annoiati o frustrati. E allora dopo un pò la storia finisce. Finché durano però non c’è niente di male nel lasciare che un rapporto aiuti a sentirsi più a proprio agio con se stessi mettendo in rilievo pregi che magari non si pensava di avere, alimentando così la propria autostima.
Perciò durante l’adolescenza e la prima giovinezza è più facile che i rapporti siano molti e relativamente brevi e che servano soprattutto a conoscere e maturare e a sapere chi si è in relazione agli altri.
La fine del primo rapporto
I primi rapporti finiscono perché uno dei due trova un altro partner che offre conferme maggiori (per esempio è più bello/bella), oppure perché uno dei due arriva prima alla fase successiva e comincia a desiderare un partner con cui ha più affinità. Succede che uno dei due prenda l’iniziativa e l’altro si trovi a subirla senza essere ancora pronto per il passo successivo. In questo caso ne risulta una sofferenza e un senso di disconferma. A questo punto la persona lasciata può cercare un altro rapporto confermante che compensi lo smacco subìto oppure che si tenga lontano dai rapporti affettivi, almeno per un pò, per paura di soffrire ancora, oppure che stabilisca un rapporto con un ragazzo o una ragazza che non ha nessuna delle caratteristiche confermanti o del partner ideale, ma con cui instaura un rapporto affettuoso che in questo modo svolge una funzione terapeutica per la ferita subita. Sono rapporti che durano il tempo necessario a curare la sofferenza.
Il primo rapporto importante è stato e sarà causa di sofferenza per la maggior parte degli adolescenti. Appena finisce sembra che il resto non abbia più importanza che non si riuscirà più a trovare un altro ragazzo o un’altra ragazza di cui si è così innamorati. L’esperienza dimostra poi che non è così.
leggi tutto il post sul blog OPL
da patrizia mattioli | Mar 16, 2017 | Blog su Il Fatto Quotidiano
La sensibilità ai commenti dei coetanei
Ludovica, 15 anni, da qualche settimane evita di uscire di casa se non è necessario, continua ad andare a scuola ma evita di uscire dalla classe durante la ricreazione e all’uscita si dilegua velocemente. Si è messa in testa di seguire una dieta severa che le consenta di dimagrire velocemente. Poche settimane prima mentre camminava nei corridoi per andare da una zona all’altra della scuola, è passata davanti ad alcuni compagni di poco più grandi ed è sicura di aver sentito un commento su di lei, sulle sue forme, soprattutto sulla sua ciccia.
Una situazione molto comune quella delle prese in giro e dei commenti da parte dei compagni, che per ragazze sensibili come Ludovica hanno un potere disconfermante, in grado di innescare uno squilibrio.
Molti disturbi alimentari iniziano così, molti disturbi alimentari iniziano in adolescenza.
L’adolescenza è in generale un periodo critico per l’emergere di vari comportamenti disfunzionali. E’ un momento delicato per i cambiamenti rapidi e vistosi che avvengono a vari livelli: l’adolescente passa velocemente da un corpo bambino a un corpo adulto, per il quale prova spesso sentimenti di estraneità e inadeguatezza; grazie alla maturazione neurologica avviene un cambiamento nel rapporto con la realtà che viene vista in diverse sfaccettature e non solo in quella che vive direttamente; avvengono cambiamenti importanti anche nelle relazioni familiari, i genitori cominciano ad essere percepiti come persone comuni, con i loro limiti e le loro incertezze e questo stimola sentimenti di delusione e solitudine.
Gli adolescenti attraversano questi cambiamenti per la maggior parte senza troppe difficoltà, sviluppando una propria autonomia e individualità parallelamente al distacco affettivo dalla famiglia di origine.
Alcuni però, come Ludovica, hanno più difficoltà ad accettare il cambiamento del proprio corpo, a gestire la complessità di una realtà sfaccettata, a cambiare l’immagine dei propri genitori. Il doverli vedere come persone comuni con le loro incertezze e insicurezze provoca una delusione più marcata, che mette in discussione il senso di sé raggiunto fino a quel momento. Un senso di sé poco definito, che da una parte ha bisogno di conferme esterne e approvazione da parte di persone significative, dall’altra teme il giudizio e la disapprovazione.
Il comportamento alimentare aiuta a gestire questa oscillazione tra bisogno e paura: i sentimenti di incapacità, insicurezza, incompetenza personale, che vengono stimolati dal confronto con gli altri, prendono forma in un corpo inaccettabile a cui ci si rassegna o a cui ci si oppone.
Leggi tutto il post su Il Fatto Quotidiano
da patrizia mattioli | Ott 3, 2016 | Blog su Il Fatto Quotidiano, Uncategorized
Cyberbullismo:, noi adulti non facciamoci sostituire dagli automi
Tiziana, Carolina, Amanda, Phoebe,..sono solo alcune delle ragazze che si sono tolte la vita a seguito della gogna mediatica innescata dalla diffusione di loro immagini intime sul web. Alcune hanno involontariamente innescato il meccanismo, altre ci si sono trovate, tutte sono fuggite dalle mire del cyberbullismo, dalla vergogna per l‘esposizione incontrollata della propria intimità.
Le loro storie riportano in primo piano il problema della privacy nella rete. Come gestirla? Come proteggersi dalla diffusione virale dell’intimità? Come proteggere i nostri figli/figlie da esposizioni incontrollate?
Sicuramente serve innanzitutto sapere di cosa stiamo parlando, conoscere per primi la rete e le sue insidie, per poter guidare i ragazzi nel mondo virtuale così come facciamo nel mondo reale.
Il Garante per la privacy ha pubblicato la guida, “Social privacy. Come tutelarsi nell’era dei social network” per la protezione dei dati personali e favorire la tutela dal cyberbullismo, per fornire agli adolescenti, ai genitori e agli adulti in generale, strumenti utili a non cadere nella trappole della rete, per utilizzarla in maniera più sicura e consapevole.
Ma perché gli adolescenti hanno bisogno di condividere le proprie immagini e/o quelle degli altri? Con l’obiettivo di aiutarli a regolare l’esposizione proviamo a capirne il significato.
Il fatto che si tratti per la maggior parte di adolescenti non è casuale, è un momento evolutivo in cui il tema dell’esposizione è molto presente: desiderata e temuta nello stesso tempo. Desiderata perché porsi al centro dell’attenzione degli altri significa essere e sentirsi visti, riconosciuti, considerati e confermati, temuta perché c’è sempre il rischio di una centralità negativa, di essere giudicati male, tenendo presente comunque che anche un giudizio negativo è pur sempre un riconoscimento e preferibile all’invisibilità.
Uno degli aspetti che creano il successo dei social che comunicano per immagini, è sicuramente legato al rapporto che gli adolescenti hanno con il proprio corpo, un corpo che cambia.
La perdita del corpo infantile a seguito dello sviluppo puberale ha ripercussioni importanti sul piano dell’identità personale dell’adolescente soprattutto se il corpo ne rappresenta uno degli elementi principali, se cioè si hanno pochi altri elementi per mantenere un senso di continuità nel passaggio dall’infanzia all’età adulta.
Il corpo che cambia rapidamente concentra l’attenzione dell’adolescente che passa molto tempo davanti allo specchio e si confronta continuamente con gli altri: nessuno è mai soddisfatto del proprio corpo. Ne deriva un senso di estraneità e di inadeguatezza, una grande sensibilità al giudizio degli altri, soprattutto a quello dei coetanei, e il bisogno di avere continue conferme esterne dell’accettabilità del nuovo corpo anche dopo il cambiamento.
L’insicurezza che per alcuni diventa ricerca di conferma nell’esposizione, può risultare insopportabile per altri che magari non riescono ad accedere a quelle conferme e ripiegano nascondendosi dietro il gruppo, prendendo di mira qualcuno, facendosi forza sulla debolezza degli altri, scagliandosi contro qualcuno per darsi un senso di consistenza. Che le cose avvengano nel web o nella vita reale non fa differenza: le vittime arrivano a sentirsi sole e isolate, senza porti sicuri in cui rifugiarsi, i carnefici si beano della forza effimera che si può ricavare da queste forme di aggressività.
Non è detto che ci sia una divisione netta tra persecutori e perseguitati.
E dove sono gli adulti? Spesso gli adulti di riferimento sono latitanti, magari impegnati in altre emergenze, o anche loro inconsistenti.
leggi tutto il post su Il Fatto Quotidiano