da patrizia mattioli | Mar 13, 2017 | Adolescenza, Blog OPL
Una fase sperimentale
Per i rapporti di coppia l’adolescenza è un periodo di sperimentazione, caratterizzato dalla tendenza a provare e riprovare, in situazioni in cui per mancanza di esperienza le cose spesso non vanno bene al primo tentativo. Le delusioni sentimentali sono abbastanza frequenti.
Le ragazze entrano in media due anni prima dei ragazzi nella formazione sociale del gruppo e orientano i loro interessi di tipo affettivo e sessuale su ragazzi che hanno qualche anno più di loro.
Partecipare alla vita di gruppo permette di imparare e perfezionare la capacità di mettersi in relazione con coetanei dell’altro sesso e di provare ad entrare in rapporto con loro a vari livelli: dalla conversazione, alla battuta scherzosa, all’attenzione affettuosa, al corteggiamento.
Si comincia a sperimentarli senza esporsi troppo dato che si sta in gruppo.
E’ nel gruppo che di solito nasce il primo rapporto sentimentale, che può intensificarsi fino a che i due formano una coppia fissa che si frequenta anche al di fuori del gruppo. Spesso l’esperienza è fatta insieme a un’altra coppia, i quattro decidono di ritrovarsi per stare insieme al cinema o per fare una gita, con la possibilità per le coppie poi di isolarsi, ma di tornare a fare gruppo se durante l’esperienza a due uno dei membri della coppia si trova in imbarazzo o in ansia e non riesce a fronteggiarli.
L’innamoramento
In questo periodo un importante momento preparatorio del processo di apprendimento sociale che stiamo descrivendo è costituito dal sognare e fantasticare sulla persona verso cui ci si sente attratti e nel guardwarla.
La maggior parte dei ragazzi e delle ragazze durante il tempo libero frequenta luoghi dove è più facile incontrare coetanei dell’altro sesso.
Ci sono luoghi dove il comportamento di approccio deve essere più esplicito, come i pub o le discoteche, situazioni dove l’approccio è più facile, come ad esempio nella squadra sportiva o nel gruppo, e luoghi in cui i contatti avvengono in modo quasi automatico, come a scuola.
Il primo approccio
Al primo approccio, tendenzialmente ci si aspetta che sia il ragazzo ad avvicinarsi, soprattutto nei pub o nelle discoteche, nei luoghi cioè più impersonali, anche se alcuni di loro, quelli che magari hanno un po’ più di paura a fare il primo passo, apprezzano che sia la ragazza ad avvicinarsi.
Alcuni ragazzi sentono particolarmente il peso del dover prendere l’iniziativa, hanno paura di non essere all’altezza, pensano che ci si aspetti molto da loro e possono reagire a queste pressioni manifestando atteggiamento bruschi. E’ un modo per superare l’imbarazzo e la vergogna.
Le tecnologie oggi intervengono in aiuto di questi ragazzi. Creano gruppi su whatsapp a cui sono sempre collegati. C’è un parallelismo dei gruppi che costruiscono e che frequentano nel mondo virtuale, con la frequentazione del gruppo reale. C’è un’affinità dei gruppi virtuali con i vecchi luoghi di ritrovo, per esempio la comitiva. Chi ha più difficoltà nel mondo reale può mettersi in contatto con la persona che interessa su whatsapp, esporsi di più e riuscire a fare dichiarazioni che di persona non riesce a fare, entrare in una maggiore intimità.
Il limite e le difficoltà personali però rimangano e quando ci si incontra non si riesce a mantenere lo stesso livello di intimità, così spesso queste relazioni non diventano reali, ma iniziano e finiscono su whatsapp o su qualche altro social.
La paura del rifiuto
Alla prime esperienze la paura di sbagliare è alta e si cerca di avere il maggior numero di informazioni sulla probabilità di successo dell’approccio: si cerca costantemente di osservare l’altro per capire se è interessato (se guarda, se si avvicina, se trova pretesti per parlare,….). Si chiede agli amici e ci si fa aiutare da loro: l’amico o l’amica vanno dal ragazzo o dalla ragazza che interessa e fanno da mediatore per scongiurare l’eventualità di un rifiuto che in questo momento peserebbe molto sull’autostima e sul proprio senso di proponibilità. Fare un buco nell’acqua sembra più drammatico (anche se più probabile) la prima volta, quando appunto si cominciano a valutare le proprie capacità di entrare in relazione con l’altro sesso, che non dopo, se e quando qualche successo ha rinforzato la propria autostima.
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da patrizia mattioli | Nov 20, 2015 | Blog su Il Fatto Quotidiano
Psicologia: reagire alla separazione
Ogni tanto la cerca, passa per caso sotto il suo ufficio o sotto casa, ugualmente per caso capita nei posti che frequenta, sperando di incontrarla. Non gli risponde più al telefono, le ha lasciato messaggi su Facebook e Whatsapp, ma lei non si è più fatta sentire, ormai sono passati molti mesi da quando lo ha lasciato ma per lui è come se fosse appena successo, non accetta la separazione.
La fine di un rapporto sentimentale è sempre un evento traumatico che segna un momento di cambiamento nella vita. È causa di sofferenza, ma soprattutto di discontinuità nel modo di percepire se stessi. Più la rottura è inaspettata, più la sofferenza è grande e più sono lente l’elaborazione della perdita e la costruzione di scenari futuri senza il partner. A volte possono volerci molti mesi o anche anni.
In linea di massima un distacco è la conseguenza naturale di un rapporto insoddisfacente che se prolungato magari procurerebbe sofferenze maggiori. In alcuni casi però l’impatto emotivo per la perdita dell’altro è così forte, da non consentire elaborazioni nei vissuti che ne conseguono: cadute dell’umore, agitazioni, sentimenti di fallimento, perdite di autostima…
Più il rapporto è stato conflittuale, più il distacco sarà complicato.
Durante la relazione, l’idea che ognuno ha di sé è influenzata dalla presenza dell’altro nella propria vita, la condivisione è un aspetto centrale si condividono amici, interessi, progetti, si costruisce uno spazio comune che definisce l’identità della coppia, come anche la propria identità.
La sofferenza perciò è per aver perso l’altro, ma soprattutto per aver perso una parte di sé.
Ci si può assumere tutta la responsabilità della rottura, criticando se stessi e colpevolizzandosi, oppure reagire al dolore con rabbia, attribuendo tutta la responsabilità all’altro.
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da patrizia mattioli | Giu 26, 2015 | Blog su Il Fatto Quotidiano
Psicologia: come rimanere se stessi nella coppia
Quanti bisogni desideri, obiettivi personali possiamo portare nella coppia? Quanto è giusto e quanto riusciamo ad affermare di noi nel rapporto con il partner?
Riuscire ad essere se stessi all’interno di una relazione stabile è un compito faticoso da realizzare, ma necessario perché è riconosciuto che una relazione sentimentale resta attiva e viva quando entrambi i partner si prendono cura del legame ma nello stesso tempo proteggono e sviluppano il proprio sé e la propria individualità.
Momenti di crisi sono facilmente legati alla difficoltà di trovare un equilibrio tra individualità e relazione: se viene dato poco valore all’espressione o alla libertà individuale è facile sentirsi oppressi o soffocati, se ci si sbilancia al contrario e ognuno tende a perseguire obiettivi personali, magari ci si chiude nel proprio mondo e ci si allontana. Si è continuamente alla ricerca di un equilibrio intermedio tra questi due poli.
Passato il momento iniziale – se la coppia riesce a superare la fase di innamoramento se concorda su alcuni punti fondamentali e si trasforma in una coppia stabile, dove vivere sentimenti più pacati ma più forti – si comincia a contrattare più o meno consapevolmente e direttamente su quelle che sono le regole da rispettare, gli obiettivi e i progetti da perseguire i tempi e gli spazi personali, quali percorsi intraprendere.
Quanto si riesce effettivamente a farlo?
Quello dell’affermazione personale è un aspetto particolare, a volte crediamo di volere una cosa e quando siamo in una relazione ne vogliamo o facciamo un’altra. Abbiamo cambiato programma, ci stiamo facendo condizionare dall’atteggiamento del partner o cosa?
Se il nostro obiettivo era puntare alla carriera, come mai ci ritroviamo a casa ad aspettare che lui o lei rientri, o al contrario, se volevamo una famiglia numerosa come mai ci troviamo continuamente fuori per lavoro?
Non è facile costruire un percorso consapevole condiviso. Aiuta conoscersi, avere un’idea abbastanza chiara di se stessi, avere un’idea abbastanza chiara dell’altro come persona che potrebbe volere cose diverse, avere la forza di esporre le proprie esigenze e i propri obiettivi, senza preoccuparsi troppo di dispiacere, deludere, o comunque attivare l’altro.
A volte certi meccanismi non sono per niente consapevoli.
Se lui ha lasciato la sua casa per andare a convivere con lei in una città che non conosce e poi lei trova un lavoro che la porta lontano da casa anche per una settimana, magari si sentirà un po’ solo, forse un po’ tradito, un po’ abbandonato se pur contento che lei abbia trovato l’impiego che voleva. Gli sembrerà però, di essersi lasciato condizionare troppo dalla relazione e di essersi un po’ trascurato.
So di una coppia in cui lei ha preso per anni il caffè a letto la mattina solo perché lui glielo portava e solo dopo diverso tempo si è resa conto che iniziare la giornata con un caffè non le piaceva affatto: forse non voleva suscitare la sensibilità di lui? Non è che si forzasse di fare una cosa che non le piaceva, realmente le sembrava di apprezzarla.
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da patrizia mattioli | Dic 11, 2014 | Blog su Il Fatto Quotidiano
Le più forti emozioni l’essere umano le prova mentre è impegnato nella costruzione, nel mantenimento o nella rottura di una relazione significativa. Lo diceva Bowlby un po’ di tempo fa. La vita di copia, le relazioni sentimentali confermano questa convinzione.
In una coppia è difficile costruire, ma soprattutto mantenere, una relazione stabile e soddisfacente che poggi su una forte intesa emotiva e che sia in grado di reggere le inevitabili prove (crisi) che le vicende di vita pongono.
Ci si incontra, ci si piace, si percepisce che può esserci intesa e si comincia la frequentazione, si attraversa una fase di “luna di miele” in cui l’altro è tutto, si vedono solo gli aspetti positivi, se ne immaginano tanti altri, a volte a ragione a volte no.
Ad un certo punto cade il velo e ci si comincia a conoscere o per lo meno si dovrebbe, si fanno i conti con la quotidianità, con le proprie sensibilità, con i propri automatismi, con le proprie fragilità. Qui si vede la difficoltà di ognuno di cogliere l’altro nella sua specificità.
Qualche discussione è inevitabile, può essere più o meno aperta. Qualche litigio è il segnale di una coppia vitale. Troppi o nessuno indicano coppie a rischio con un potenziale di sofferenza alto. Per non parlare delle coppie dove l’emotività espressa è molto alta, che sono quelle più a rischio di atti violenti.
Nella vita di coppia le discussioni sono un momento importante di conoscenza, ci si scontra per opinioni diverse su come affrontare un progetto, sui comportamenti consentiti e non consentiti, sull’educazione dei figli. Quello che spesso succede è che il contenuto della discussione passa in secondo piano e si discute di relazione. Più una relazione è sana e più la discussione è focalizzata sui contenuti, più è “malata” e più parlando di contenuti si discute invece del modo di stare insieme.
Nelle discussioni si è spesso convinti di reagire al comportamento dell’altro, senza rendersi conto di influenzarlo con la propria reazione. Ogni partner è in genere responsabile per metà del conflitto che si genera, per esempio se lui tende a chiudersi in se stesso e a non comunicare e lei invece tende ad arrabbiarsi e ad accusare o viceversa. Ognuno può attribuire all’altro la causa del suo comportamento senza mai arrivare a comprenderlo veramente: per lui chiudersi e non comunicare è determinato dagli atteggiamenti oppressivi di lei, mentre per lei questa è una grossolana storpiatura di quello che veramente succede e cioè che è la chiusura di lui che scatena la sue accuse.
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da patrizia mattioli | Nov 14, 2014 | Blog su Il Fatto Quotidiano
Lasciare e essere lasciati
Giorgio e Adele si sono lasciati. Convivevano da sei anni, ma era già da un paio che le cose non andavano. Lei ha iniziato ad avere voglia di uscire, di vedere gli amici, di ritardare il momento di tornare a casa, più stava fuori e meno aveva voglia di tornare, alla fine se ne è dovuta rendere conto: la loro relazione si era esaurita. Lo dice a Giorgio, per lui andava tutto bene. La chiusura di una relazione è dolorosa, sia per chi la decide, che per chi la subisce, se è condivisa o se non lo è.
Spesso pensiamo che chi si lascia ha in qualche modo esaurito il sentimento, prendiamo le parti di uno o dell’altro, se sono amici o parenti o noi stessi, cerchiamo di attribuire colpe e responsabilità e non consideriamo che lo stare insieme è un percorso, l’amore è un percorso che si costruisce insieme, se si interrompe è perché uno o entrambi hanno smesso di costruire. Magari hanno smesso di comunicare da tempo, di mettersi al corrente di qualche delusione vissuta nel rapporto, di preoccuparsi del reciproco benessere e della reciproca serenità.
La distanza affettiva crea le condizioni per qualsiasi cosa. A volte un tradimento può servire a chiarirsi o essere un tentativo di compensazione della sofferenza, un tentativo di soluzione, per salvare la coppia. Chi si sente trascurato può cercare fuori dalla coppia un sostegno temporaneo che gli consente di reggere il momento critico per poi rientrare. A volte la sofferenza è andata troppo oltre e l’evasione prende la mano.
Nella chiusura i partner affrontano la stessa sofferenza: il dolore del distacco da chi è stato importante, da una relazione che un tempo era speciale, da quello che poteva essere e non è stato o non è più, il senso di fallimento per il progetto interrotto, il senso di vuoto per lo spazio che l’altro lascia, uno spazio reale, concreto e uno interiore, affettivo: l’altro, sia il lasciato che colui che lascia, ha rappresentato fino a quel momento la conferma della propria identità che ora deve essere cercata altrove, era egli stesso una parte di quell’identità che dovrà essere ricostruita.
Se chi lascia ha iniziato a costruire dentro di sé il distacco tanto tempo prima, senza aggiornare l’altro o magari anche senza rendersene conto, al momento della rottura i due si possono trovare in posizioni molto distanti: uno pronto per iniziare un’altra vita, l’altro in balia degli eventi.
Chi lascia può sentirsi in colpa e avere paura di essere considerato e/o doversi considerare cattivo, insensibile, inadeguato, perché non è più innamorato. Ma forse la sua vera responsabilità è quella di non aver informato l’altro del disagio che si vive da tempo, per via di quella difficoltà a parlare e di quell’idea che lui/lei non avrebbe capito.
Chi è lasciato può rimanere incredulo e sentirsi poi abbandonato, triste, disperato, arrabbiato, con il dubbio di doversi attribuire la colpa per la fine, di doverla attribuire a qualche aspetto essenziale di sé, di stimarsi meno. Forse l’unica responsabilità che ha è di aver perso il contatto.
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