Le emozioni sono il termometro della nostra salute

Le emozioni sono il termometro della nostra salute

Le emozioni sono un indicatore del nostro equilibrio. La paura di soffrire, genera di solito più sofferenza di quella che riesce ad evitare.

Quando dico soffrire, mi riferisco alle emozioni, a quelle attivazioni che percepiamo come tristezza, paura, rabbia… A volte ci sembrano conseguenti a qualcosa, a un evento, a un pensiero, altre volte non sappiamo risalirne all’origine.

Nella psicoterapia buona parte del lavoro consiste proprio nell’aiutare la persona a ricollegare l’emozione che prova e che la fa soffrire, a ciò che l’ha originata.

Quando si parla di emozioni un atteggiamento diffuso è quello di considerarle come incidenti di percorso, ostacoli da eliminare. Tanto che quando salgono emozioni sgradevoli si fa fatica anche solo ad ammettere di provarle per non sentirsi troppo diversi.

Si sente dire: “ma tu sei un emotivo?” Dove emotivo sta per negativo, sbagliato, a dir poco inadeguato. In opposizione a controllato, razionale, giusto.
E’ come chiedere: “ma tu sei uno che respira?”.

Siamo tutti ‘emotivi’, non solo, l’emozione, anche sotto forma di sintomo, è un segnale importante , una spia del nostro equilibrio, un po’ come la spia della riserva della macchina.

Se un’emozione si accende e non ce lo aspettavamo, significa che sta accadendo qualcosa di importante, non necessariamente di negativo.

Questa, l’emozione, interrompe il corso dei nostri pensieri, interferisce con le nostre azioni e ri-orienta la nostra attenzione. Anche quella più sgradevole non è fine a se stessa ma porta un significato che dobbiamo arrivare a capire. Per capire dobbiamo però accettare e attraversare quell’emozione e magari provare a collegarla al particolare momento di vita che stiamo vivendo.

Chi ha paura dell’ascensore, tende a evitarlo, per evitare di provare paura (la paura della paura di cui dicevo sopra).
Comincerà a fare le scale a piedi anche se abita all’ottavo piano. Fin qui nessun problema, al più si tiene in forma.

Ma se il problema non sta nell’ascensore, ma nel significato che l’ascensore assume, in quanto luogo piccolo e stretto in cui non c’è possibilità di fuga per alcuni interminabili secondi, allora la paura si potrebbe dirigere verso altri luoghi che hanno le stesse caratteristiche in quanto situazioni che offrono scarse possibilità di fuga, per esempio la macchina.

Continuando ad evitare luoghi e situazioni si arriverebbe a restringere talmente tanto il proprio campo di azione da non potersi più muovere, paralizzati dalla paura.

Allora va bene evitare l’ascensore e i luoghi stretti ma solo per il tempo necessario a capire che cosa veramente si sta evitando, che cosa sta accadendo dentro.

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Attacco di panico: un codice da trafurre

Attacco di panico: un codice da trafurre

attacco di panicoAttacco di panico: un codice da tradurre

Gli attacchi di panico hanno una loro funzione e non devono essere eliminati. Sono sgradevoli certo, ma hanno l’importante compito di informarci sul nostro stato interno. Teoricamente dovremmo essere informati su come stiamo, ma in pratica spesso non è così: la nostra giornata è sempre ricca di stimoli esterni, di cose da fare, di problemi da risolvere, mettiamoci poi che certi pensieri o certi stati d’animo non ci piacciono così con la scusa degli impegni non gli diamo la giusta attenzione, li ignoriamo e allora questi emergono prepotentemente quando si sta per prendere una strada pericolosa, attivando tutti i segnali di allarme, sì perché un attacco di panico è un segnale di allarme, come lo è quello che si spinge in ascensore se si blocca o che attiva certi sensori se c’è una fuga di gas, servono a segnalare un problema. Non elimineremmo l’allarme per la fuga di gas, è una questione di sicurezza, così non dobbiamo eliminare l’attacco di panico quando compare, ma semplicemente dobbiamo capirlo, ricostruirne la coerenza.. Per Anna si è manifestato con un grande formicolio alle mani e ai piedi, con il battito cardiaco talmente accelerato che il cuore sembrava dovesse esploderle; per Rita si è manifestato con un senso di chiusura alla gola e di mancanza d’aria, non riusciva, o almeno così le sembrava, a respirare; per Federico si è manifestato con un forte senso di vertigine e sbandamento e la convinzione di essere sul punto di svenire.

Sono solo alcuni dei modi in cui si manifesta il disagio, quello che tutti gli attacchi di panico hanno in comune è il senso di perdita controllo e di pericolo imminente. Nella maggior parte dei casi l’unico vero pericolo è quello di non riuscire a mettere d’accordo: quello che si vorrebbe fare con quello che si sente di poter fare, quello che ci viene richiesto con quello che si vorrebbe effettivamente, quello che si vede con quello che si percepisce…

Anna aveva iniziato a cercare casa con il suo ragazzo, è proprio in una delle case visitate che è arrivato il primo attacco di panico. Ad una analisi successiva aveva preso consapevolezza del fatto che non si sentiva per niente pronta a lasciare la casa dei suoi genitori, a rinunciare alla loro protezione, a prendersi le sue responsabilità, non si sentiva autonoma, il suo ragazzo poi non sembrava così affidabile.

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Psicologia, se il panico inizia fra i banchi di scuola

Il Prof. Giorgi non è un cattivo insegnante, anzi, è più buono e disponibile di altri. Solo che è un po’ burbero, diretto. Gli studenti lo temono, soprattutto quelli del primo anno. Uno in particolare, che chiamerò Emanuele, ieri ha passato un brutto momento, si è lasciato prendere dal panico perché c’era una ragionevole probabilità di essere interrogato proprio da lui. Ha cominciato a sentire un grande peso al petto, a tremare, a non riuscire a stare in equilibrio in piedi. Un compagno lo ha accompagnato fuori dalla classe e si sono seduti sulle scale, io stavo salendo al piano superiore e mi sono fermata a parlarci un po’. Alle interrogazioni di solito Emanuele fa scena muta, per lo meno al liceo e non solo con questo insegnante. E non perché non abbia studiato, ma perché ha paura di sbagliare, di tirare fuori qualche sfondone che provoca le reazioni brusche dell’insegnante e le risate dei compagni.

Si era sentito nel panico con questo stesso insegnante i primi giorni di scuola. I problemi però non sono iniziati al liceo, anche prima alla scuola media, si agitava, ma non gli era mai successo di non rispondere a nessuna domanda.

A casa Emanuele studia da solo e non ripete la lezione a nessuno, sarebbe invece importante che lo studio fosse seguito da una prima verifica personale che, attraverso la ripetizione della lezione da preparare, diventa anche la simulazione dell’interrogazione con l’anticipazione delle reazioni emotive.

E’ importante per uno studente, arrivare a capire qual è il significato della sua intensa reazione emotiva e della difficoltà a contenerla e gestirla.

Che significa per Emanuele essere interrogato? Qual è il suo senso di autovalutazione? A quest’età è difficile distinguere tra se stessi e la prestazione scolastica, così un giudizio negativo sulla prestazione corrisponde ad un giudizio negativo su di sé come persona, e questo è coerente con il panico che prova.

Costruire un significato significa anche ricostruire una storia. Nella vita di Emanuele c’è un nonno autoritario e invadente, critico e intransigente, che assomiglia un po’ al professore temuto, è uno che ha sempre un motivo per criticare. Suo figlio, il padre di Emanuele, sembra riuscire a contenere poco la sua intrusività. Quando Emanuele sta con il nonno, non sa mai cosa si può aspettare.

Si può capire da dove nasce la sensibilità emotiva di Emanuele. Il passaggio alla scuola superiore poi fa il resto.

E’ importante che un ragazzo costruisca prima possibile una buona relazione con i nuovi compagni e con gli insegnanti. Come genitori possiamo sostenerli mentre costruiscono nuove amicizie e possiamo aiutarli a farsi conoscere e capire dai docenti. Agli insegnanti possiamo spiegare come (i nostri ragazzi) sono fatti. Possiamo favorire un contatto diretto, magari coinvolgendoli nei colloqui con gli insegnanti, soprattutto con i più temuti.

 

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