Il coronavirus tiene lontani psicologi e pazienti, ma la terapia online copre le distanze
Le restrizioni sociali imposte dal governo per contenere i rischi di contagio dal virus Covid-19 hanno cambiato le nostre abitudini e questo ha avuto una ricaduta anche nell’ambito delle cure psicologiche. Anche se la psicoterapia non rientrava nel novero delle attività sottoposte a restrizione, si è creato da subito un allineamento nella convinzione sia dei pazienti che dei terapeuti che fosse auspicabile il venire meno della presenza anche in esse, dato il momento, e che si potesse trasferire online lo spazio di incontro.
Non tutti hanno accettato l’alternativa: alcuni pazienti e terapeuti hanno preferito fare una sospensione e rimandare le cure al “dopo emergenza Covid”, per vari motivi. Per quel che riguarda i pazienti, c’è chi non apprezza il rapporto con la tecnologia e si sente poco a suo agio a raccontarsi in uno spazio virtuale, e chi non riesce a ritrovare uno spazio di privacy adeguato a casa, se abita in un piccolo appartamento che condivide con un partner, con i genitori, con i fratelli o con i figli.
Psicologo di base, nuove speranze per una figura da affiancare al medico
Ci sono speranze per lo psicologo di base.
Qualche giorno fa sono state pubblicate le traduzioni in italiano del Piano d’Azione per la Salute Mentale 2013-2020 (WHO Mental Health Action Plan 2013-2020) e del Piano d’Azione Europeo per la Salute Mentale (European Mental Health Action Plan), ad esso complementare, che guideranno le politiche degli Stati membri in tema di salute mentale fino al 2020.
I disturbi mentali rappresentano una delle più importanti sfide per la salute pubblica della Regione Europa, secondo stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) interessano oltre un terzo della popolazione ogni anno e i disturbi più diffusi sono la depressione e l’ansia. I disturbi mentali rappresentano la principale categoria di malattie croniche in Europa.
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L’accesso universalistico, il pieno rispetto dei diritti umani, l’equità, l’attenzione a tutte le fasi del ciclo di vita, l’empowerment delle persone con l’esperienza del disturbo mentale, l’approccio multisettoriale e gli interventi fondati su evidenze sono i principi e gli obiettivi indicati nei Piani di Azione.
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Vi si parla indistintamente di disagio psichico e disturbo mentale.
Ma depressione e ansia sono reazioni fisiologiche a eventi stressanti della vita ed è più giuste considerarle come disagio psichico che è poi l’aspetto prevalente in cui si manifestano.
Considerarle indistintamente disturbi significa dare loro una connotazione unicamente negativa e affrontarle e curarle come malattie, perciò lavorare per eliminarle, significa favorire il percorso di estraniamento della persona dalle sue emozioni e dai suoi stati d’animo, allontanandola dalla “guarigione” che in termini psicologici è piuttosto la reintegrazione di quegli stessi stati d’animo all’interno della propria narrazione, del proprio modo di dare significato alle esperienze, della propria coerenza interna.
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Un attacco di panico per esempio è un’emergenza emotiva risultato di un personale modo di essere e di elaborare l’esperienza, di una deficitaria capacità di riconoscere e attribuirsi certe reazioni emotive che vengono ignorate o relegate sullo sfondo, per emergere poi prepotentemente come un’onda anomala. Considerarlo come una malattia e basta, come dicevo, significa intervenire per eliminarlo e favorire l’estraneità al sintomo che ne è all’origine e con essa l’aumento della probabilità di altre emergenze emotive. Una lotta senza fine.
Possiamo considerare l’omicidio un comportamento protettivo? Genitori che uccidono
Quali sono le ragioni Dei genitori che uccidono i propri figli e poi si uccidono? Alcuni di quelli che sopravvivono raccontano che lo hanno fatto per proteggerli, in un delirio di responsabilità prendono consapevolezza della propria fragilità e della difficoltà a sostenere il peso della genitorialità. Così un meccanismo normale e utile come l’attaccamento si trasforma in una reazione abnorme, come è successo a Lecco. Possiamo considerare l’omicidio come un comportamento protettivo?
Se non si ha nessuno con cui condividere le responsabilità, se non si ha o ci si convince di non avere più nessuno che vuole bene, se l’isolamento prende la forma della disperazione, l’accudimento diventa un compito troppo pesante da sostenere e gli scenari immaginati di sofferenza che si prolunga in eterno, sembrano più drammatici di una fine (di una morte) veloce, istantanea.
Certo questo non è l’unico motivo che può spingere un genitore a riprendersi la vita dei figli.
Questo orribile gesto può avere origini diverse: l’immaturità e l’incapacità di sostenere il ruolo genitoriale, la perdita di contatto con la realtà – quando per esempio c’è l’impressione che i capricci o la vivacità dei figli siano la dimostrazione che sono degli indemoniati da salvare uccidendoli – il desiderio di vendetta contro il/la partner, e altre ancora.
Motivazioni diverse per storie che hanno in comune vissuti di profonda solitudine, di disperazione per la perdita di qualcosa (per esempio la libertà dopo la nascita del figlio), o di qualcuno (un genitore, un partner). La tristezza per lo sfascio della famiglia se uno dei due si trova a portare avanti da solo tutto il peso. Il dolore per la separazione toglie le forze e in questo stato è difficile pensare a un futuro. Come il lutto è accompagnata da sentimenti di perdita, solitudine, disperazione. Se poi tutto questo avviene lontano dalla propria famiglia di origine e non si può contare sul conforto di altri familiari o di amici, la disperazione si amplifica, prende il sopravvento e il difficile, sembra impossibile, il futuro è uno scenario buio.
Andarsene sembra la soluzione migliore.
Il senso di responsabilità, poi, fa credere di non poter lasciare i figli. Portarli via con sé diventa l’unica strada possibile se non c’è o non si percepisce aiuto dagli altri, uccidere è l’ultimo gesto di responsabilità e protezione verso di loro. E’ il paradosso dell’accudimento.
Il problema – molto più antico del momento in cui accadono i fatti – è che le persone non si rendono conto di quello che provano, hanno perso il contatto con se stesse, con le proprie emozioni e i propri sentimenti molto tempo prima e si trovano in balia di un impulso estraneo, di cui non conoscono la provenienza, che le lascia incredule tanto che spesso non si ricordano di quello che hanno fatto. Quando poi iniziano a ricordare, iniziano a essere perseguitate dal ricordo.
E’ anche difficile aiutarle perché senza consapevolezza non viene formulata alcuna richiesta di aiuto oppure vengono fatte richieste indirette, mascherate, che vanno interpretate. Spesso da fuori il disagio non si vede.
L’uccisione di un bambino scuote comunque la nostra coscienza e vorremmo tutti dare un contributo, ma come?