Il QI non può essere solo ragionamento analitico: per il bene comune serve saggezza

Il QI non può essere solo ragionamento analitico: per il bene comune serve saggezza

La scuola attuale favorisce gli studenti tradizionalmente più capaci a memorizzare e ragionare in modo analitico. Privilegiare il ragionamento analitico, quello che si misura attraverso i test che danno come risultato un Qi (quoziente intellettivo), cioè un numero che indica quanto la persona si colloca nella media dei risultati generali, è però di scarsa o nulla utilità per risolvere i problemi attuali del mondo. Non si può considerare l’intelligenza come un’unica funzione valutabile attraverso abilità logico-matematiche.

E’ quello che sostiene Robert Sternberg, psicologo statunitense, tra i maggiori studiosi dell’intelligenza e dello sviluppo cognitivo. Se l’uomo continua ad agire così, lascerà ai figli e ai nipoti un mondo surriscaldato e inquinato. Abbiamo bisogno di ripensare l’intelligenza in termini più ampi.

Secondo Sternberg l’Intelligenza è ciò che una persona fa della sua vita e non la prestazione a test di stimoli artificiali che non hanno niente a che vedere con la vita reale. Sono ‘intelligenti di successo’ le persone consapevoli dei propri punti di forza e di debolezza, che riescono a valorizzare i primi e a correggere o compensare i secondi.

I punti di forza e di debolezza sono valutati in base a quattro abilità: creative, analitiche, pratiche e basate sulla saggezza. L’individuo ha bisogno di essere creativo per generare idee nuove e utili; analitico per accertare che le idee che ha (e che altri hanno) siano buone; pratico per applicare quelle idee e convincere gli altri del loro valore – l’intelligenza pratica corrisponde a quello che in genere chiamiamo “senso comune”- e saggio per assicurare che l’attuazione delle idee contribuisca a garantire un bene comune attraverso la mediazione di principi etici positivi.

La ricerca di Sternberg ha mostrato che molte persone che hanno un’alta intelligenza scolastica (quindi un alto Qi) mancano di senso comune e viceversa molte persone con grande senso comune non hanno un Qi particolarmente elevato. Negli Stati Uniti (e io direi anche qui da noi), l’ammissione universitaria – per esempio – spesso dipende dall’intelligenza scolastica e non dall’intelligenza pratica, così si finisce per collocare in posizioni di leadership persone con titoli universitari per le quali sono dolorosamente non qualificate. Sono persone in grado di risolvere problemi scolastici, ma non problemi reali.

forme di intelligenza per raggiungere un bene comune, in prospettiva sia a breve che a lungo termine.

Il Q.I. è di scarsa o nulla utilità per risolvere i problemi che affronta il mondo: l’autoritarismo, il razzismo, la xenofobia, le armi di distruzione di massa, il terrorismo, l’inquinamento, il cambiamento nel clima globale, la pandemia….

(segue)

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Simone Biles, Naomi Osaka e quella sensazione di ‘avere il peso del mondo sulle spalle’

Simone Biles, Naomi Osaka e quella sensazione di ‘avere il peso del mondo sulle spalle’

Vittorie e medaglie sono il risultato di allenamento, disciplina, fatica, rinunce. A volte il prezzo della vittoria è più alto della soddisfazione per la vittoria stessa. Si può immaginare che atlete che si ritirano, come Simone Biles – o che vengono sorprendentemente sconfitte, come Naomi Osaka – abbiano buoni motivi per farlo, non sempre comprensibili da fuori.

Provo a fare qualche riflessione sugli aspetti prettamente psicologici che portano alla rinuncia.
Aspetti che evidentemente sono molteplici, alcuni a breve, altri a media, altri ancora a lunga distanza dalla decisione finale di interrompere il percorso per cui si lavora da anni.

Non c’è dubbio che le pressioni sugli atleti che arrivano a rappresentare il proprio paese in competizioni importanti come le Olimpiadi siano molto alte. Cominciano nel momento in cui uno sportivo si avvicina al suo sport in modo agonistico: non si “gioca” più. Pressioni che aumentano n maniera direttamente proporzionale ad ogni traguardo raggiunto. E’ un carico che l’atleta non porta da solo, la maggior parte dei successi sono il risultato di un lavoro di squadra. Ma c’è sempre un piano più personale di peso e dipenderà da molte cose quanto il singolo atleta saprà sopportarlo.

Sarà importante l’andamento delle sue relazioni, sia nella squadra, che nella vita privata. Cambiamenti importanti in ognuna delle parti avranno una ricaduta sullo stato d’animo che potrebbero richiedere un periodo di tempo lungo per essere integrate. Cambiamento di allenatore, di staff, di compagni di gara magari più bravi che mettono in discussione i primati personali, come anche separazioni, perdite, malattie, sono solo alcuni tra gli elementi rilevanti. Anche inaspettate oscillazioni nella prestazione minano il proprio senso di capacità ed efficacia personale.

Potrebbe essere quello che è accaduto a Simone Biles, che dichiara di aver perso la fiducia in sé, di non divertirsi più, di sentirsi sola in pedana contro i suoi demoni. Quali demoni? Nell’ultima gara durante il volteggio è atterrata male sulla caviglia destra, ottenendo il suo punteggio più basso, anche se sempre più alto delle altre. Una performance che intacca l’immagine di campionessa. Sono allora i demoni della sconfitta e del fallimento?

Se si è abituati a vincere, a eccellere, ad avere il controllo della situazione, una leggera flessione mette a rischio la gara e una mancata vittoria può essere vissuta con un molto poco sportivo senso di fallimento, di delusione, di sconfitta. Non so Simone Biles, ma i comuni mortali usano spesso ritirarsi da una competizione o una situazione in cui non sono sicuri di “vincere”. Meglio un dignitoso ritiro che un’umiliante perdita.

Anche uno scarto tra le aspettative e quello che effettivamente accade può minare le sicurezze di un atleta e rendere sbagliato qualsiasi risultato. E’ quello che forse è successo a Naomi Osaka, tennista numero 2 al mondo, anche lei uscita dalla competizione olimpica dopo una sconfitta. Osaka afferma di aver sofferto di attacchi di depressione dagli Us Open del 2018, dove alla finale sconfisse Serena Williamse il pubblico finì per fischiarla piuttosto che applaudirla. Un’esperienza con cui forse ancora si confronta, lei che si racconta come una persona molto introversa, che ha paura delle persone e ascolta musica con le cuffiette mentre è in partita, per ingannare la sua sensibilità.

Ha sconfitto un’avversaria che però era anche un suo idolo, si è trovata perciò a vincere (un torneo) e perdere (un modello di riferimento) contemporaneamente. La disapprovazione del pubblico ha fatto il resto. Ogni risultato da lì in poi sembra sbagliato, se vince rivive la disapprovazione e la perdita di un modello che per essere efficace dovrebbe rimanere sempre inarrivabile, se perde delude se stessa, i fan, la squadra, il Paese. Un problema senza soluzione che si risolve con il ritiro.

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Non è facile chiedere scusa, anzi è sintomo di forza e stabilità

Non è facile chiedere scusa, anzi è sintomo di forza e stabilità

Non è facile chiedere scusa e fanno notizia persone al potere che lo fanno: Angela Merkel che si scusa per l’errore sul lockdown di Pasqua, Giuseppe Conte che un anno fa si scusava per i ritardi sugli aiuti economici. Le loro scuse hanno avuto grande attenzione dai media che le hanno definite segnali di debolezza e grandezza nello stesso tempo. Considerate così insolite da ritenerle future pagine di libri di Storia.

Per chiedere scusa bisogna in realtà essere forti e stabili. Studi sul tema mettono in evidenza che la capacità di scusarsi denota la presenza di capacità autoriflessive, di un equilibrio psicologico stabile, di buone capacità adattive. I più inclini alle scuse hanno in genere un senso positivo di sé, credono nella possibilità di migliorare dagli errori. Chi è tendenzialmente più tollerante, meno giudicante verso le persone e i fatti, sembra essere più capace di riconoscere e accettare i propri errori e mettere in atto azioni di recupero.

Perché per altri invece rimane tanto difficile chiedere scusa? Probabilmente perché chiedere scusa richiama insicurezze personali, come se scusarsi significasse abbassare le difese e mettersi in una posizione di maggiore vulnerabilità di fronte agli altri che allora possono giudicare se si merita o meno la comprensione o il perdono.

Chiedere scusa comporta la consapevolezza di essere in torto e a volte ammettere anche solo a se stessi di aver sbagliato è un passaggio delicato che può mettere in discussione la positività del proprio senso di sé e dell’immagine che si mostra agli altri. È infatti più difficile riconoscere l’errore se questo non rimane circoscritto al singolo comportamento o alla singola scelta ma viene generalizzato a tutta la persona, trasformando il senso di aver sbagliato nel vissuto di essere sbagliati (non è un comportamento, ma l’intera persona a non andare bene). Riconoscere i propri errori è allora difficile perché rischia di creare forti oscillazioni emotive, cosa che contrasta con l’umano bisogno di stabilità. E nel tentativo di mantenere la stabilità interiore si può arrivare a negare l’evidenza. Proteggere la propria immagine in certi momenti può essere una priorità.

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Anche l’Italia dovrebbe avere un ministero della Solitudine

Anche l’Italia dovrebbe avere un ministero della Solitudine

Anche l’Italia dovrebbe avere un ministero che renda la solitudine una funzione statale e preveda l’offerta di servizi pubblici ai reduci del distanziamento sociale.

In alcuni paesi del mondo esiste il Ministero della Solitudine.

In Giappone, visto il significativo aumento di suicidi e tentativi di suicidio nell’ultimo anno in seguito alle restrizioni imposte per il Covid-19, è stato istituito un ministero (e un ministro) della solitudine. Il Regno Unito ne ha uno già da qualche anno.

Il ministro giapponese della solitudine, ha un obiettivo ambizioso: porre fine all’isolamento degli individui e proteggere i legami fra le persone.

Noi potremmo aggiungerne un altro: trasformare la solitudine in risorsa, insegnando alle persone a utilizzare la sofferenza come motore di cambiamento.

Il nostro ministero potrebbe avere tanti dipartimenti quante sono le solitudini, perché ognuno ha la sua solitudine, un personale modo di viverla ed esprimerla, anche se tutti stanno a rappresentare l’esperienza di sentirsi separato dagli altri, di percepire un senso di estraneità e non appartenenza, un senso di non condivisione.

Sono stati d’animo che non si ha piacere di vivere, che si cerca spesso di allontanare. Da qui la paura della solitudine, la paura di ritrovarsi da soli con se stessi, con le proprie emozioni, e la difficoltà di stabilire un dialogo interiore, la difficoltà di incontrarsi.

La solitudine è uno stato d’animo che può riguardare tutti in qualche momento della vita. E’ una grande sofferenza e nello stesso tempo una grande risorsa. Ritirarsi in solitudine, chiudersi in se stessi, è un modo fisiologico di rigenerarsi.

Il distanziamento sociale, poiché imposto, ha reso più difficile percepire la solitudine come risorsa. 

Il distanziamento sociale ha portato a solitudini forzate o per l’obbligo di isolamento o per eccesso di vicinanza, sì perché anche la vicinanza eccessiva può stimolare solitudine. La coppia e la famiglia sono i luoghi in cui si sperimentano i più forti sentimenti di solitudine. Sentirsi incompresi dal partner o dai genitori, è tra le sensazioni più difficili da sopportare. A volte presenze “assenti”, fanno sentire profondamente soli.

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Salute mentale, non basta un buon reddito per stare bene

Salute mentale, non basta un buon reddito per stare bene

Salute mentale, non basta un buon reddito per stare bene

L’attuale instabilità di governo consentirà di mantenere i lavori in corso che riguardano la psicologia?

Penso al Tavolo di Lavoro Tecnico sulla Salute Mentale costituito dal Ministero della Salute dove si dovrebbe parlare, tra le altre cose, di psicoterapia. La salute mentale è un argomento divenuto molto centrale in questo periodo anche se a causa, o grazie, a una pandemia. Molte indagini dimostrano un significativo aumento della sofferenza psichica nella popolazione, probabilmente ognuno di noi la tocca con mano perché la vive personalmente.

Auguriamoci che il Tavolo di Lavoro non rallenti troppo il suo percorso e che la legittima attenzione abbia poi una ricaduta concreta a favore di chi non ha possibilità di accedere al supporto di psicoterapia privata.

Se da una parte l’apertura di un Tavolo di Lavoro per la psicoterapia fa sperare in una soluzione strutturale per la gestione del disagio e della sofferenza, dall’altra i tempi lunghi che questi iter comportano rendono necessarie soluzioni più veloci per fronteggiare il bisogno urgente di sostegno psicologico. A questo scopo erano stati immaginati e richiesti a più riprese dal nostro Ordine Professionale e dal nostro Ente di Previdenza dei voucher, sin dall’inizio della pandemia, a parziale copertura delle spese sostenute per il ricorso al sostegno psicologico privato. Potevano e potrebbero essere una soluzione intermedia alle richieste urgenti

Un gesto concreto, quello dei voucher come anche la prospettiva di una “psicoterapia di base”, che aiuterebbe molti ad avvicinarsi ai servizi di psicoterapia e che avrebbe l’effetto anche più importante di riconoscere e legittimare la sofferenza psicologica. Purtroppo i percorsi mirati a istituzionalizzare la psicologia sono spesso rallentati o interrotti dal sopraggiungere di altre priorità.

E’ ormai appurato che investire nella psicologia renda molto di più di quanto si spende. Investire nella psicologia e nella psicoterapia significa investire concretamente nella costruzione e/o nel consolidamento della resilienza personale, cioè nella capacità individuale e collettiva di affrontare le situazioni difficili, come quella attuale. La capacità di resilienza si costruisce nel tempo, è molto legata all’equilibrio psicologico che è a sua volta in relazione diretta all’atmosfera psicologica vissuta a partire dalla nascita e i primi anni di vita. Può comunque sempre aumentare o diminuire nel corso dell’esistenza. Eventi esterni o interni che stimolano forti reazioni emotive influiscono sulla resilienza.

La pandemia ci ha dimostrato chiaramente che benessere economico, psicologico e sociale non coincidono e che non basta avere un buon reddito per stare bene: a ogni miglioramento economico corrisponde un benessere psicologico effimero che ha bisogno di guadagni esponenziali per mantenersi.

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