da patrizia mattioli | Feb 3, 2016 | Blog su Il Fatto Quotidiano
Bullo e vittima:due facce, stessa medaglia
Costretta a rientrare a scuola dove era presa di mira da alcuni compagni Chiara si è sentita senza via di scampo e ha optato per quel gesto sconsiderato. Stava vivendo un dramma e non lo aveva spiegato bene a nessuno. Forse si vergognava, forse pensava di non potersi fidare.
In effetti se un ragazzo è preso di mira dai compagni raramente lo fa sapere, magari per paura di non essere creduto o per poca fiducia nell’adulto, magari perché si sente fragile e debole e teme per la propria incolumità fisica, o perché ha paura di essere deriso e umiliato, di venire escluso in misura maggiore di quanto non stia già accadendo e peggiorare ulteriormente la situazione.
Paura e vergogna gli impediscono di reagire.
Spesso i ragazzi sono bravi a nascondere i problemi, e dobbiamo ricavarli dall’osservazione più che dalla comunicazione diretta: vigilando a distanza per esempio sull’andamento scolastico, soprattutto se avvengono oscillazioni inaspettate nel rendimento e si nota una perdita di interesse e di motivazione allo studio; registrando i bruschi cambiamenti di abitudini o di umore; rilevando le assenze scolastiche frequenti o taciute, la paura di andare a scuola, la chiusura, la mancanza di rapporti con i compagni, l’isolamento.
Secondo l’Istat oltre il 50% degli under 18 ha subito una prepotenza e le prepotenze sono più frequenti a 11-13 anni, quando i ragazzi della scuola media devono definirsi in maniera precisa: o si è “popolari” o si è “sfigati”.t
Lo chiamiamo bullismo, un gioco perverso senza vincitori né vinti, in cui è difficile a volte distinguere tra vittima e carnefice. Il carnefice di oggi è stato la vittima di ieri, oppure è vittima in altre aree della vita, magari assiste continuamente a scenari di violenza in famiglia.
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da patrizia mattioli | Gen 21, 2016 | Blog su Il Fatto Quotidiano
Scuola, un intreccio di relazioni
Per Fabio, studente del primo anno, la prof lo ha preso di mira; Per Anna, insegnante, Fabio è superficiale e non si applica; Per Gianni, padre di Fabio l’insegnante non capisce suo figlio. Studenti, insegnanti, genitori, tre modi di vedere le cose. Stessa situazione, interpretazioni diverse. La scuola è un intreccio di relazioni in cui i protagonisti sono alla continua ricerca di un linguaggio comune per intendersi. Non sempre ci riescono, qualche volta chiedono aiuto allo psicologo. Ne parlo nel mio libro Uno Psicologo nella Scuola, edito da Alpes Italia, in uscita in questi giorni.
Chi sono studenti, insegnanti e genitori?
Gli studenti della scuola superiore sono adolescenti con tutti i problemi comuni a questa fase di crescita: l’insicurezza, la paura del giudizio, la vergogna, il bisogno di accettazione e conferma, il bisogno di essere guidati senza sentirsi legati, ecc… Capire i loro vissuti aiuta a comprendere perché per esempio perdono la motivazione allo studio, o perché invece di andare a scuola passano la mattinata sugli autobus, o perché non riescono a oltrepassare il portone di casa colpiti da terribili mal di pancia…
Sono ragazzi sensibili, all’atteggiamento dei compagni, alle aspettative dei genitori, al giudizio degli insegnanti. Dagli insegnanti si aspettano un riconoscimento prima come persone che come studenti, non si accontentano di sentirsi confusi tra i tanti nella classe.
Gli insegnanti entrano a scuola con i temi comuni a chi sceglie questa professione: il desiderio di guidare e incidere sulle giovani menti, di essere riconosciuti positivamente dagli studenti, la paura di deludere le aspettative (di alunni, colleghi, genitori, dirigenti) date le sfaccettate aspettative riposte su di loro. A volte il carico è troppo alto.
Ci sono le storie. Se è naturale chiedersi quale situazione familiare abbia alle spalle uno studente soprattutto se si fa notare, lo è di meno per l’insegnante perché è un luogo comune che gli insegnanti debbano essere obiettivi e imparziali e lasciare fuori dalla classe le proprie questioni private. Poi ci sono i genitori che oggi funzionano meglio come “base sicura” che come educatori guardiani dei valori d’appartenenza, come invece erano i genitori di qualche tempo fa.
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da patrizia mattioli | Set 25, 2015 | Blog su Il Fatto Quotidiano
Quanto entrare nella scelta dell’indirizzo di studi dei propri figli?
Ricomincia un anno scolastico.
La scuola è uno dei campi in cui si generano più facilmente conflitti, quanto è bene intervenire per il bene dei figli?. Le aspettative dei genitori, che siano espresse o meno, hanno un peso sull’impegno e sul risultato scolastico del figlio. Per un genitore è difficile trovare la giusta dimensione tra il suo essere una figura di riferimento, il lasciare spazio e il dare indicazioni o imporre scelte per esempio per quel che riguarda l’indirizzo di studi da seguire.
E’ un problema che si pone soprattutto nel passaggio tra la scuola media e la scuola superiore, momento in cui spesso i ragazzi non hanno le idee chiare su quello che vogliono fare o magari ce l’hanno ma non riescono a esprimerle in modo chiaro, spesso si inseriscono i genitori con i loro progetti, le loro aspettative, le loro convinzioni, a volte le loro frustrazioni. Approfittando dell’incertezza impongono le loro scelte con conseguenze importanti nel rapporto del figlio con la scuola, per esempio il rischio di allungare il suo percorso scolastico o di favorire l’abbandono degli studi.
A volte non riescono a percepire il figlio come un individuo autonomo ma lo vivono piuttosto come un prolungamento di sé perciò tendono a dare per scontato che egli abbia i loro stessi gusti e le loro stesse preferenze. Lavorando a scuola capita di incontrare situazioni di questo tipo.
Antonio viene con il padre che lo porta al colloquio perché lo vede in difficoltà sia come inserimento nella classe, sia come rendimento scolastico. Parlando poi con il ragazzo viene fuori che a lui questa scuola proprio non piace, non si trova bene con le materie scientifiche, lui avrebbe voluto prendere il liceo artistico, ma il padre, ingegnere non aveva voluto. Lo vedeva piuttosto seguire le sue stesse orme.
Trovarsi in un contesto che non gli apparteneva lo faceva sentire inadeguato con ripercussioni importanti su tutto ciò che riguardava la scuola. Questo papà faceva fatica a percepire il figlio come individuo autonomo, da qui l’istinto di intervenire e prendere decisioni per il suo bene. Le intenzioni erano buone, ma poco calate nella realtà e nei bisogni di Antonio.Il ragazzo da parte sua, aveva le sue difficoltà ad esprimere in maniera definita il suo punto di vista. Aveva paura delle reazioni del padre e non voleva deluderlo.
Intendiamoci, un errore nella scelta scolastica non può, da solo, generare danni irreversibili, piuttosto si inserisce in un equilibrio delicato, come elemento di stress in più. Se è un meccanismo che si verifica spesso, possiamo immaginare che un ragazzo si trovi spesso in situazioni che non gli appartengono, in cui non si riconosce e che questo alimenti la sua insicurezza.
Come genitori dobbiamo fare tutto il possibile per favorire il meglio per i nostri figli, ma nel fare questo dobbiamo considerarli come persone, osservarli, ascoltare quello che hanno da dire, riuscire a distinguere tra quello che ci vogliono dire per farci contenti e quello che invece rappresenta davvero se stessi.
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da patrizia mattioli | Apr 29, 2013 | Adolescenza, Genitorialità, Scuola
Negoziare il tempo da dedicare allo studio
Le prestazioni scolastiche dei figli hanno una ricaduta particolare sulla vita dei genitori.
Se l’atteggiamento dei genitori di fronte allo studio oscilla tra il controllo (del tempo da dedicare allo studio, della gestione di un’interrogazione, ecc..), e la delega alla scuola e al ragazzo, è difficile per loro comprendere se e quali difficoltà egli possa avere di fronte agli impegni scolastici, ritrovandosi a volte ad affrontare risultati che lasciano perplessi e increduli senza avere il senso di come ci si sia arrivati.
Qualcuno si ritrova con una o due materie da portare a settembre se non addirittura la prospettiva di ripetere l’anno.
Molte volte una bocciatura arriva inaspettata perché i ragazzi hanno taciutoo sui risultati scolastici, altre volte fa seguito ad una flessione più o meno marcata del rendimento dopo un periodo soddisfacente.
La difficoltà scolastica viene spesso letta in funzione dello scarso impegno e della mancanza volontà, senza considerare che comportamenti inadeguati, disimpegni, rifiuti, sono in genere indicatori di malesseri affettivi e relazionali più complessi
La bocciatura per rimanere in tema, è un fallimento per il ragazzo, per i suoi genitori, per la scuola, ognuno ha la sua parte di responsabilità.
“Gli insegnanti non capiscono….sono stati ingiusti…non a hanno valutato l’impegno…non ti sei impegnato…..dovevo controllarti di più….o di meno…..” probabilmente tutte cose vere che tendono a spostare all’esterno, il problema, a cercare un colpevole: gli insegnanti , la scuola, il figlio o se stessi per spiegare il motivo di un insuccesso, senza mai arrivare a comprenderlo veramente..
Un figlio che va male o è bocciato, va a scuotere l’immagine di buoni genitori e mette in discussione il progetto educativo portato avanti fino a quel momento, se non anche qualche progetto personale investito sul ragazzo più o meno consapevolmente.
Insoddisfazioni lavorative e obiettivi mancati, possono fare investire il figlio di aspettative di riscatto.
Si vorrebbe che egli diventasse la persona di successo che non si è diventati e si da per scontato che lui condivida questo obiettivo, non considerando neanche l’eventualità che possa pensarla in modo diverso.
Resta da chiarire che, se il ragazzo/a si è giocato la promozione, qualche indizio deve averlo pur dato durantre l’anno scolastico, come mai nessuno se ne è accorto?
Le vicende della vita attuale portano a volte i genitori a caricarsi di impegni e responsabilità che vanno ben oltre le proprie possibilità, tanto da rischiare di perdere di vista il rapporto con i figli a favore delle preoccupazioni esterne, è facile allora distrarsi e prendere per buona una rassicurazione, è quello di cui hanno bisogno per andare a lavorare sereni: si accetta una comunicazione puramente verbale senza soffermarsi a valutare se questa è coerente con tutte le altre informazioni che il ragazzo invia su altri piani (attraverso l’umore, il tempo che dedica allo studio, le informazioni che da a mezza bocca, la presenza o meno di racconti di vicende scolastiche, la chiusura/apertura che manifesta nei confronti dei compagni e degli insegnanti ecc…)
E’ giusto dare fiducia e autonomia, un adolescente deve imparare a regolarsi da solo, prendere consapevolezza delle proprie responsabilità, ma l’ autonomia và vigilata da lontano per poter cogliere in tempo eventuali difficoltà.
C’è anche da dire che, se pure i genitori sono attenti, è difficile per loro entrare nel mondo di un figlio adolescente.E’ difficile per loro cogliere gli aspetti più personali delle difficoltà senza doversele attribuire , è difficile cogliere l’adolescenziale paura di deludere, di essere rimproverato, di stimolare bronci e critiche, rifiuti, esclusioni e divieti, prima di sentirsi genitori sbagliati. E’ forse qui il cuore del problema: le difficoltà, le incertezze, i limiti, dei figli fanno soffrirre. E un ragazzo lo sa, per questo gli sembra più facile non parlare delle difficoltà che incontra a scuola, sperando che le cose cambino, che i genitori non si accorgano che non è bravo, che è diverso da come lo vedono o lo vorrebbero, che magari si ribalti lo scenario, senza fare previsioni per il futuro e ritrovandosi poi esattamente al punto che voleva evitare, ma offrendo all’esterno la possibilità di chiamare in causa lo scarso impegno e la mancanza di volontà.
da patrizia mattioli | Set 28, 2012 | Adolescenza
Andy Warrol
Adolescenza
Adolescenza, solo a nominarla questa parola richiama alla mente scenari di crisi, problemi, conflitti. Nell’immaginario collettivo attuale l’adolescenza è sempre associata a momenti di forte impatto emotivo naturalmente negativo.
I figli adolescenti si sentono spesso trattati dai propri genitori come se fossero bombe a orologeria pronte a scoppiare da un momento all’altro.
Ma che cos’è l’adolescenza per incutere tanta inquietudine: una malattia, un percorso ad ostacoli, un fulmine che ti colpisce se cammini vicino agli alberi quando piove?
L’adolescenza non è un fenomeno universale, in molte società primitive neanche esiste: i ragazzi e le ragazze passano direttamente dall’infanzia all’età adulta attraverso riti di passaggio che trasmettono loro il patrimonio culturale della collettività a cui appartengono.
Nella società moderna sembrava più utile ritardare il momento dell’inserimento nel mondo adulto.
E’ nato così quel periodo nuovo dell’esistenza umana, chiamato adolescenza. Inizialmente solo come breve fase di passaggio. Oggi come fase evolutiva, al pari dell’infanzia e della fanciullezza, che inizia con lo sviluppo puberale e si conclude con lo sviluppo dell’autonomia e l’acquisizione dei ruoli e delle responsabilità adulte, un periodo dunque di circa 10/12 anni. anni che servono, tra le altre cose, a riorganizzare l’identità personale costruita nelle fasi precedenti.
A casa
Al ragazzo adolescente non piace essere considerato una bomba e non si capacita delle reazioni degli adulti quando rivendica i propri diritti. Se fino a poco tempo prima era disposto a rispettare un divieto solo perché dato da un genitore, ora non accetterà nessuna regola su cui non abbia prima discusso e che non abbia compreso.
Gli adolescenti non capiscono perchè i padri se la prendono tanto se vogliono fare di testa loro, perché le madri si allarmano quando vogliono tenere qualche segreto, o perché entrambi i genitori reagiscono così male quando esprimono idee diverse dalle loro, o vogliono fare tardi la sera.
Quando l’adolescente si rende conto di avere opinioni e idee personali, diverse da quelle dei suoi genitori, si aspetta che queste vengano riconosciute e rispettate ed è disposto a discutere di continuo per questo. Si aspetta dunque di essere ascoltato, considerato, insomma di essere trattato alla pari.
A scuola
A scuola non può essere diverso. Qui i ragazzi si aspettano di essere considerati dai professori e dai compagni, di poter sviluppare i propri interessi culturali, di poter discutere con l’insegnante sui contenuti delle lezioni, di potersi costruire rapporti di amicizia importanti e di fare le prime esperienze sentimentali.
Non gli piace essere troppo al centro dell’attenzione, ma neanche essere ignorati.
Vogliono conoscere il perché delle cose e apprezzano chi spiega senza prevaricare. Hanno bisogno di proteggere i proprii sentimenti più intimi e le idee più personali, che riservano per i rapporti speciali, e nello stesso tempo hanno bisogno di raccontarsi di confrontarsi, di parlare dei propri successi e dei propri fallimenti.
Non vogliono essere trattati da ragazzini e sono molto sensibile al giudizio degli adulti, soprattutto di quelli che ammirano di più e a cui vogliono assomigliare.
I ragazzi a scuola si aspettano di trovare sostegno e modelli da seguire, ancora di più se con i genitori si trovano in difficoltà.